Corruzione ad alta velocità. Viaggio nel governo invisibile (Nuove Edizioni Koinè, Roma, 1999) è opera di tre autori – il giudice Ferdinando Imposimato, l’avvocato Giuseppe Pisauro e il giornalista Sandro Provvisionato – che attraverso la cronaca dello scandalo sul sistema ferroviario dell’Alta Velocità (140 mila miliardi di lire di investimento) ci indica qualcosa di più profondo rispetto alla mera cronaca o ai singoli comportamenti giudiziariamente accertati come illeciti, o meno, in capo ai tanti nomi citati.
In tal senso la prefazione di Emanuele Macaluso è già in parte esplicativa: “Leggendo questo testo… si vede come il corpo dei magistrati sia attraversato da vere e proprie faide e diventa sempre più difficile capire se iniziative giudiziarie di alcune procure nei confronti di magistrati di altri distretti giudiziari siano fondate o no; se sono atti ritorsivi e vendette o no. Scorrendo il libro di un magistrato romano (parlo di Francesco Misiani e del suo libro “Toga rossa”), vittima di un’iniziativa della procura milanese, si ha l’impressione terribile dell’esercizio di un potere la cui discrezionalità consente grandi abusi”.
Ma è nell’Introduzione del libro che si passa da questo particolare, che a tutto concedere potrebbe afferire a dinamiche interne di casta, a ciò che invece interessa tutti, laddove l’archetipo di coloro che anni di propaganda hanno dipinto come gli arcangeli della giustizia se non proprio della moralità e dell’etica, con sorprendente anticipo di quasi tre lustri rispetto a quanto racconterà Milena Gabanelli nel 2012, viene così presentato:
“Come in un romanzo avvincente, il dott. Di Pietro si districa fra avvenimenti di bassissimo profilo, furbescamente elabora e perfeziona tecniche inquisitoriali altamente selettive di fatti e personaggi, gestite per rendere malleabile la materia processuale, per elargire vie di fuga agli amici, nel mentre si costruiscono impraticabili cunicoli ciechi per gli avversari, al suo dire e contemporaneamente negare, al suo offrirsi a tutti pur di assicurarsi un ruolo di prestigio nazionale, al suo amichevole conversare con inquisiti che diventano amici (soprattutto se gli possono garantire una immagine sui media), al ritrovarsi politicamente organico a leader di governo che, nel passato, erano stati bistrattati da indagati”.
Quindi si arriva a quello che i tre autori (Imposimato, tra l’altro, è stato giudice istruttore delle indagini sul rapimento Moro e sull’attentato a Giovanni Paolo II) definiscono testualmente “terrorismo giudiziario” e cioè a come alcuni istituti processuali siano stati letteralmente piegati alle esigenze favorevoli o contrarie, a seconda del caso, a questo o quell’imputato; oppure a come si può far scomparire un processo, talvolta anche nella sua materialità; o applicare tecniche che consentono di indagare sul nulla più assoluto un tal personaggio al fine di conseguirne poi dei favori personali.
Sarebbe fin troppo facile individuare i replicanti di un siffatto sistema che – mischiati alla maggioranza laboriosa e silenziosa dei colleghi onesti – da allora ad oggi si sono fatti strada, anche in politica, su scala più o meno ridotta rispetto al modello archetipico. Ma il problema non sta tanto nei nomi quanto nel comprendere che una certa meccanica giudiziaria consente, codice alla mano, di attuare veri e propri giochi di prestigio.
Un contesto siffatto, però, determina pure che la mano vincente ce l’hanno sempre i peggiori. E non mi riferisco ai PM o a quegli avvocati, di cui pure parla il testo, che si ritrovano a ricoprire tutti i ruoli possibili a servizio dei primi (talvolta anche di materiali mediatori) senza che venga mai sollevato alcun problema di opportunità o incompatibilità, ma a ciò che più in generale si trae dalle pagine conclusive del libro laddove gli autori osservano che a partire dalla cosiddetta seconda Repubblica “I forti interessi economici e finanziari hanno puntato alla normalizzazione della democrazia attraverso il controllo dei mass-media, usati per dare spazio esclusivamente agli ex giacobini, agli alfieri della rivoluzione giudiziaria, ai profeti del moralismo giustizialista, che hanno dato una copertura ai grandi gruppi capitalistici, perno della corruzione. Forti del sostegno mediatico dei corrotti miracolati, i giacobini hanno dilagato propugnando ideologie qualunquistiche e antipartitiche.
Le oligarchie finanziarie e tecnocratiche, sopravvissute all’ondata di tangentopoli, sono riuscite a ridimensionare la presenza dei partiti, divenendo esse arbitre esclusive del sistema di spartizione delle commesse pubbliche, per decine di migliaia di miliardi… . Cosicchè nelle grandi opere pubbliche, come l’Alta velocità e le autostrade, coesistono in perfetta armonia, i protagonisti di sempre: i boiardi di stato, i grandi mediatori corruttori, le imprese cooperative, Cosa nostra, la Camorra, alcuni magistrati collaudatori e i grandi gruppi finanziari… . I beneficiati sono, questa volta, solo i potentati economici, divenuti essi stessi partiti… . Essi si servono dei mass-media, acquistati con il provento della corruzione, per svolgere una funzione di narcosi collettiva e di pura propaganda. Mentre gli ex giacobini si sono convertiti nella difesa dei privilegi, contentandosi della conquista del potere.”
E così una lettura che sembrava riferirsi solo alla storia, oramai fors’anche banale, di uno scandalo di proporzioni enormi, svolta verso l’analisi di uno scandalo ancor più gigantesco: la condizione di un Paese che anziché agli standard di civiltà europei sembra più vicino a quelli di una repubblica delle banane. Condizione che ad oggi, sebbene siano trascorsi 14 anni dall’uscita del libro, non pare sia cambiata più di tanto.
(Giuseppe Cicero)