“Il caso Genchi, storia di un uomo in balia dello Stato” (Edoardo Montolli, Aliberti Editore, Roma, 2009) è un libro che a vederselo tra le mani mette paura perché è un “mattone” di mille pagine – 984 per la precisione – che non invogliano certo alla lettura.
Ma se si supera questa prima fase la vera paura viene dopo averlo letto e aver quindi preso coscienza che tutto ciò che ci hanno insegnato di buono e bello sulle istituzioni dello Stato forse non è altro che una mostruosa bugia. Sensazione che avrà sperimentato anche l’autore se alla fine del libro scrive fuori dai denti:
“Questa è una storia che ha a che fare con l’infamia… L’infamia di chi una mattina ha dimenticato la dignità in un cassetto e l’ha lasciata lì a marcire. Per fare ciò che voleva, usando la legge, la gente e il denaro a proprio uso e consumo, ma senza prendersi mai uno straccio di responsabilità. Quella che pure i banditi si sono sempre presi. Mentre salgo sull’aereo che mi porta lontano da Palermo, mi chiedo se sia ancora lecito obbedire in un Paese dove i primi a non rispettare le regole sono quelli che le scrivono, le applicano e quelli che dovrebbero giudicare.”
La storia del libro, vera, è quella di Gioacchino Genchi, “un poliziotto maledettamente bravo”, esperto in informatica. Così bravo che nel 2011 verrà destituito dalla Polizia nonostante sia stato perito informatico nei più importanti procedimenti di mafia, compresi quelli sulle stragi Falcone e Borsellino (su quest’ultimo aveva una particolare teoria circa il luogo da dove venne dato il via per fare esplodere l’auto-bomba).
La sua specialità di indagine era quella d’incrociare dati e non – come è stato fatto credere – di eseguire intercettazioni telefoniche abusive. In altri termini il suo metodo di lavoro non consisteva nell’ascoltare telefonate ma nell’esaminarne i tabulati: “Se due soggetti si contattano al cellulare è segno che non sono assieme; se un soggetto chiama un altro al cellulare, vuol dire che ha bisogno di parlargli o comunque di comunicargli qualcosa. La maggiore o minore durata della conversazione; la circostanza che a chiamare sia l’uno o l’altro; il posizionamento dei cellulari in conversazione; gli spostamenti eseguiti prima e dopo la conversazione; il codice degli apparati IMEI utilizzati; l’eventuale presenza di chiamate che precedono e/o seguono i contatti telefonici evidenziati… consentono la formazione della cosiddetta prova logica”.
Il guaio, però, è che questa metodica è più precisa e penetrante di quanto si possa immaginare a prima vista. Specialmente da quando le intercettazioni vere e proprie sono diventate poco significative perchè sono rimasti in pochi a non aver capito che al telefono è meglio parlare poco e che al massimo (meglio ancora se con un apparecchio non usato abitualmente) ci si dà solo un appuntamento per vedersi di persona. E così, solo per fare qualche esempio, hai voglia a dire che in una data ora in quel posto specifico non c’eri, se la cella che ha agganciato il tuo telefonino ti segnala in zona con un’approssimazione di poche decine di metri; oppure sostenere che in un dato giorno non ti sei incontrato con una certa persona in tale posto, se invece i tabulati provano che anch’essa era agganciata dalla tua stessa cella telefonica. Il tutto con l'”aggravante” che non c’è bisogno di un giudice che abbia ordinato in tempo l’intercettazione e abbia avuto la fortuna di registrare per avventura la telefonata giusta, in quanto i tabulati telefonici di chiunque si possono incrociare anche a dstanza di anni, con operazione ex post.
Quelle di Genchi, quindi, sono semplici tracce telefoniche senza il contenuto della conversazione; tracce, però, ricostruibili anche a distanza di tempo e indipendentemente dalle intercettazioni, che dicono con assoluta certezza e precisione “Chi chiama chi, e soprattutto da dove e quando lo fa. Solo che puoi smentire i ricordi di un pentito, così come puoi smentire incontri, testimoni, date… Ma una telefonata non la puoi smentire. Una telefonata la puoi soltanto giustificare”.
E’ facilmente immaginabile, perciò, a quante insospettabili connessioni e scomode verità può portare questo sistema se applicato a un’inchiesta giudiziaria che vede ad esempio coinvolto tutto o quasi l’establishment di una città. E così si apprende, leggendo questo libro, che Genchi oggi ha pure paura di farsi curare in alcuni dei più importanti ospedali siciliani che sono stati al centro di inchieste in cui è stato applicato questo suo metodo, primo fra tutti il “Nuovo Garibaldi” di Catania (dove non a caso la sua Perizia è rimasta a lungo misconosciuta), e per l’effetto preferisce andare in Lombardia. Oppure che “Puoi avere tutte le nozioni di diritto che vuoi, ma se conosci il giudice, gli telefoni a casa o qualche centinaio di volte su un cellulare di famiglia, e, forse, ci vai a cena, è sicuramente meglio”.
Fino ad arrivare alla considerazione – non ultima, ma centrale e forse più disperante di tutta un’inchiesta giudiziaria – che “il problema non è più chi commetta cosa, il problema è che qui si conoscono tutti”.
(Giuseppe Cicero)