“La lotteria a Babilonia” (1941) è un breve racconto di Borges inserito nella raccolta “Finzioni”. Tratta del caso e dell’arbitrio e allude a un disordine caotico dove il dominio dell’azzardo è corretto dal suo incanalamento in un alveo presuntamente logico su cui domina il potere sfuggente di un’oscura e inquietante entità: la Compagnia (A. Melis, “Un labirinto che conduce al sud”).
Come spesso in Borges, le significazioni del racconto sono ambigue ma la Compagnia è descritta come conferitaria, per volontà popolare, di tutti i poteri pubblici necessari per gestire l’ordine, anzi l’ordine nuovo (una tappa storica necessaria…); è onnipotente e astuta (dispone di spie e all’occorrenza anche di astrologhi) e per arrivare ad essa basta depositare delazioni (poi accuratamente catalogate, indipendentemente dall’attendibilità) in alcuni posti prestabiliti tra cui – testuale – una latrina sacra chiamata Qaphqa.
Se non bastasse questo chiaro riferimento all’autore de “Il Processo”, ben conosciuto da Borges, ce n’è abbastanza per un’idea più precisa senza nemmeno evocare “La Biblioteca di Babele”, speculare racconto compreso nella stessa raccolta, come metafora della giurisprudenza. Anche perchè l’ordine gestito dalla Compagnia (niente a che vedere con l’omonima, venerabile, magistratura ginevrina di Calvino?) gira attorno a una lotteria che essendo per definizione un’interpolazione del caso nell’ordine del mondo, comporta, secondo dottrina, che accettare gli errori non significa contraddire il caso, anzi vuol dire corroborarlo.
Nel vertiginoso e stupefacente (ma non più di tanto) paese descritto da Borges, la lotteria – quella post-riforma conseguita a precedenti lotterie dichiarate prive di virtù morali – è parte principale della realtà. Ogni uomo libero vi partecipa automaticamente. Con conseguenze incalcolabili: una giocata felice, infatti, può determinare la sua ascesa sociale o l’arresto di un nemico (o la conquista della donna desiderata) mentre una giocata sfavorevole può comportare una mutilazione, un’infamia di vario genere o addirittura la morte.
In pratica, visto che il destino di ognuno dipende poco dalla logica, nella repubblica di Borges – dove tutti sono stati sia schiavi che proconsoli (seppure in una rigorosa gerarchia con al vertice gli uomini di un ben preciso segno) – si è deciso che è meglio affidarsi totalmente al caso, all’illogico, quindi, nella sua accezione più pura. Alla lotteria, per l’appunto, la cui celebrazione è affidata a una casta di gran sacerdoti che a differenza della plebe ha iniziaticamente compreso che fa pure parte del gioco, o del destino, o del caso – anzi è la stessa identica cosa! – il fatto di intervenire sul caso manipolandolo o correggendolo, combinando le giocate della lotteria con operazioni degne di fede divulgate con una certa dose d’inganno.
Ne deriva un numero di sorteggi infinito e che nessuna decisione è quella finale: tutte si ramificano in altre. Gli ignoranti – precisa Borges – suppongono che infiniti sorteggi richiedano un tempo infinito ma in realtà basta che il tempo sia infinitamente suddivisibile. Per non dire dei sorteggi impersonali, dallo scopo indefinito (e dalle conseguenze a volte terribili). Si esercita perciò, sotto l’influsso della Compagnia, la menzogna indiretta: anche il rinvenimento di un documento probante può essere opera di sorteggio, non si pubblicano più libri che non abbiano qualche discordanza in ciascuno degli esemplari e gli scrivani prestano un giuramento segreto con il quale si impegnano a omettere, interpolare, variare. Del resto, conclude l’Autore, nulla è così contaminato di finzione come la Compagnia. E con modestia divina e un funzionamento silenzioso essa evita ogni pubblicità, ingenerando così ogni tipo di congettura: compresa quella di una sua influenza minima sul sacro, ereditario, disordine delle nostre vite.
Ecco perché in questo racconto Borges mi appare ancor più geniale: egli ha infatti compreso e descritto senza aver mai esercitato attività connesse al diritto (suo padre, però, era avvocato e sua madre e sua sorella verranno imprigionate per motivi politici) quel che ho capito solo dopo trent’anni di mestiere.
(G. Cicero)