Come dice già il sottotitolo, “La toga rossa” (M. Tropea Editore, Milano 1998) è la storia di un giudice, Francesco Misiani, scritta dal protagonista assieme al giornalista Carlo Bonini. E riguarda la vicenda giudiziaria nella quale si è trovato coinvolto il primo, che lavorava presso la Procura di Roma, accusato da quella di Milano di favoreggiamento a un collega magistrato arrestato per corruzione.
Va detto subito che Misiani venne successivamente assolto ma nel frattempo si era dimesso dalla magistratura incominciando a fare l’avvocato. La storia del suo processo, tuttavia, non è quel che più avvince in questo libro (appena uscì fece scalpore ma divenne subito introvabile nelle librerie) in quanto è ciò che si trae su certi meccanismi giudiziari che ha, per i non addetti ai lavori, dell’impensabile.
L’ho letto molti anni addietro (riuscii a trovarne una delle ultime copie in una libreria di Roma prima che scomparisse del tutto) ma mi sono rimaste impresse le pagine relative a due ben precise vicende.
La prima è quando Misiani scopre con sgomento che la registrazione della sua voce mentre in un bar riferiva al collega dell’inchiesta (questo diceva l’atto d’accusa a suo carico) era invece incomprensibile ed era stata integrata… con gli appunti che un ispettore di polizia aveva preso su un tovagliolo di carta. La seconda, quella del “mandato di cattura a grappolo”, è ancor più significativa e si riferisce al trucco per coprire il totale vuoto probatorio di un’inchiesta:
“Vuoto probatorio che i due magistrati cercano affannosamente di riempire con una figura fino ad allora ignota al processo penale: il cosiddetto mandato a grappolo” – spiega nel libro – “Un provvedimento di cattura che… ‘sostituisce’ di volta in volta le accuse precedentemente contestate, ma rivelatesi inconsistenti. Il processo, in un incedere mostruoso, cambia così la propria fisionomia in corso d’indagine. L’imputato è in balia del suo giudice e sa che non potrà comunque guadagnare la propria libertà. I suoi capi d’imputazione ora si modificano, ora si moltiplicano, seguendo percorsi sillogistici che lo schiacciano tra le accuse più disparate, formulate in virtù di una non meglio precisata proprietà transitiva”.
Parola di giudice. Uno che ha ammesso con coraggio che forse non sarebbe più in grado di guardare un imputato negli occhi. E quindi si è fatto avvocato. (G.C.)