Non è detto che le autobiografie debbano essere precise fin nei dettagli, anzi questa imperfezione spesso spinge a coglierne il generale, assai più disvelante, significato.
E in quella lasciataci da Nino Lombardo – “Dai Normanni ai Democristiani. Storia di un gruppo dirigente (Paternò 1943-1993)” – il titolo può già trarre in errore. I Normanni, infatti, non sono oggetto del libro ma soltanto – come chiarisce la Prefazione – “un pretesto retorico per sottolineare la continuità della città dall’insediamento sulla collina storica al moderno quartiere Ardizzone. Il castello normanno e il grattacielo democristiano: due simboli…”.
Ma se il simbolo non è che un mero significante e si ritiene idonea la parola “feudo” per definire (ai tempi) il territorio di riferimento di un maggiorente democristiano, allora non è azzardato accostare la citazione di apertura della storia narrata da Lombardo – “Forsan et haec olim meminisse iuvabit” – a un diploma del cognato e genero di Ruggero I il normanno che inizia: “Ego Comes Henricus, stante me in castello Paternionis in domo mea cum iocunditate, multique de meis fidelibus et baronis circum astantes…”.
I Normanni come metafora, dunque. E forse come modello di governo eclettico, tollerante, artisticamente e intellettualmente sensibile, di cui Palermo – città icastica in tal senso, a lungo vissuta da Lombardo durante i tre mandati parlamentari all’ARS prima dei cinque a Roma – è secolare testimone e perciò archetipo per un ipotetico tentativo di replica su scala ridotta.
Comunque sia, il periodo storico di Lombardo è stato per Paternò assai stimolante, se non altro perchè alla sua “corte” (per restare in tema) arrivarono da ogni dove personalità di notevole spessore intellettuale. Uno creò un festival (“Rocca Normanna”, per l’appunto); un altro una Galleria d’arte moderna; un altro compilò un volume su nove secoli di storia e arte cittadina; e un altro ancora, ricordo, un giorno spuntò come se niente fosse con il futuro Premio Oscar Roberto Benigni al seguito. Per non dire degli urbanisti, architetti e ingegneri, che fondarono (vera e propria “Paternò Nuova”) una città satellite contigua alla preesistente. E di tanti altri, locali, tra cui un maestro filosofo che aveva portato in cttà l’eretico Fo molto prima del Nobel per la letteratura; due tecnici autodidatti con i fascicoli della Scuola Radio Elettra; e persino un farmacista in bilico tra scienza e alchimia.
Sostenute dalla magia del fare di questa specie di Tavola rotonda visionaria, cose straordinarie avvennero in quello che in fondo non era più che un grosso centro di provincia. Tuttavia non so misurare, né potrei essere obiettivo, l’impatto popolare di questa politica, invero a volte disconosciuta. Come non so se chi stava in Giunta o in Consiglio si rese mai conto che buona parte di ciò che deliberava sottendeva a un processo di elaborazione legato alla composita intelligencija collaterale di cui s’è detto. So invece che talvolta questo processo rispondeva a connessioni stabilite fra cose in apparenza lontane e senza legame evidente: le note di Wagner e una delibera; un passo di Ibsen (o di Calderon de La Barca) e l’ordine del giorno di una riunione; una ballata di De Andrè e una campagna elettorale a Messina; o un articolo di fondo e la nomina di un assessore anziché un altro.
Un metodo simile a quello, in verità mai del tutto chiarito, del Giuoco delle perle di vetro che, però, non saprei dire se fosse o meno presente nella sterminata raccolta dell’onorevole Lombardo. Al tempo avevo all’incirca vent’anni e dell’Autore non conoscevo nemmeno l’esistenza.
G. C.