Bruno Tinti è un magistrato che parla della magistratura, ragion per cui la tentazione sarebbe quella di credere che le sue considerazioni siano faziose o che i suoi testi risentano di un’impostazione tipica del linguaggio giuridico, ma non è così, e “Toghe rotte” ne è la prima fortunata dimostrazione.
Innanzitutto, occorre dire che la parte iniziale del libro si legge come un romanzo di fantasia, per quanto i suoi contenuti siano invece tristemente concreti: lo stesso Tinti e alcuni altri giudici che hanno preferito l’anonimato, raccontano la propria professione fra colleghi disonesti, mancanza di attrezzature (per cui un magistrato può doversi trovare, nel bel mezzo di un processo, a svitare viti sotto il proprio palchetto), burocrazia selvaggia e leggi fatte ad hoc per una sempre più sporadica certezza della pena.
Essendosi a lungo occupato di reati tributari, societari e fallimentari, Tinti insiste particolarmente sugli stessi, spiegando con parole semplici e perforanti come piccoli spilli, che nella maggior parte dei casi i colpevoli dei suddetti reati non solo la fanno franca, ma si prendono beffa dell’intero sistema perseverando (e perseverando) negli stessi atti illeciti, sicuri che non vedranno quelle famose sbarrette verticali nemmeno nei loro incubi notturni. Niente di strano che un reato grave come l’abuso edilizio sia ormai considerato una mera formalità: condonato legislativamente e (diciamocelo) “moralmente”, dal momento che nessuna coscienza comune può essere scossa da una casalinga che fa spostare una finestra, e, per una curiosa proprietà transitiva “amplificata”, nessuna coscienza è ormai scossa da una ditta edile che erige palazzine presso una qualsiasi zona archeologica.
Non mancano storie in grado di mettere a dura prova il sistema biliare di ogni individuo dotato di minima cognizione della Giustizia: mi riferisco ai fatti capitati ad un giudice donna che si trova a dover fare i conti con una famiglia di strozzini, un esercito di avvocati corrotti e un povero vecchietto in balia del sistema. Fra minacce più o meno velate e un via-vai di personaggi squallidamente intrappolati nell’omertà, la protagonista giunge ad un falso lieto fine, che mostra perfettamente l’impossibilità di tenere una condotta priva di sbavature in un contesto del genere. Nonostante l’obiettivo finale sia “giusto”, non per questo i mezzi per raggiungerlo lo sono altrettanto.
Uno degli aspetti più interessanti della riflessione di Tinti è proprio questo: la non-distinzione fra “giustizia” legale e “giustizia” morale. In fondo, sembra suggerire l’autore, perché trincerarci dietro l’ipocrisia della “verità processuale”? Come se la verità del processo sia, in un certo senso, meno “vera” della verità effettiva. Lo è diventata a causa dei buchi enormi che si sono formati negli anni nel sistema legislativo, per cui rarissimamente chi sbaglia paga, o meglio, chi ha i soldi per permettersi un bravo avvocato non paga (quasi) mai. Eppure dovrebbe essere scontato che l’uxoricida vada in carcere … così come il senso comune trova deprecabile il suo gesto, allo stesso modo dovrebbe trovarlo deprecabile la nostra legge, ma per una serie di “attenuanti” e concomitanze, può capire che l’uccisore della propria moglie stia in carcere non più di cinque annetti.
Con l’esempio appena citato si apre la seconda parte del libro. A questo punto le esperienze personali si interrompono ed inizia l’analisi degli istituti normativi: la pena, i gradi di giudizio, lo svolgimento delle indagini, le funzioni del Tribunale della Libertà. Insomma, un sintetico prontuario in grado di mostrare come funziona e cosa non funziona nella Giustizia italiana.
Nemmeno a dirlo, il tutto è pervaso da una delusione chiaramente percepibile, perché evidentemente chi scrive ha riversato grande passione nel portare avanti una professione, quella del Magistrato, che ha sempre dovuto districarsi fra luci e ombre. Le prime hanno le sembianze dei Giudici coraggiosi e volenterosi, le seconde somigliano ai politicanti corrotti e non per nulla hanno buona rappresentanza all’interno del Csm. Assai significativa e molto bella anche dal punto di vista letterario, la frase in epilogo: “No Corto, non per niente; la rivoluzione può cominciare anche su un minareto”.
Non potrei, insomma, consigliare lettura migliore di “Toghe rotte” per chi ha voglia di conoscere un po’ meglio il mondo della magistratura e della legge italiana, fermo restando che si tratta di una lettura obiettiva, ma non super partes. Non ci sono difese ad oltranza, e nemmeno condanne (come si ci aspetterebbe da un Giudice), tuttavia Tinti è apprezzabile nel suo non farci dimenticare che ciò che stiamo leggendo non è frutto di un indagine giornalistica, ma è la riflessione di un lucido magistrato, che ironicamente e amaramente rimprovera se stesso per la fiducia accordata al figlio ingrato e scialacquatore, che pure ha tanto amato.
Il libro di Bruno Tinti “TOGHE ROTTE” è edito da Chiarelettere, 181 pagine, 12€.
ROSSELLA SPITALE
Recensione pubblicata in SUD, aprile 2013