Aldo Busi per “Pagina 90″ in Dagospia, 31 VII 2014.
VITA STANDARD DI UNO SCRITTORE PRECARIO
ALDO BUSI: “VOLO SOLO LOW COST, GLI ALBERGHI A PIÙ DI TRE STELLE ORMAI MI STUCCANO. NIENTE RISTORANTI, MEGLIO UNA TAVOLA CALDA. NON POTREI FARCELA SE AVESSI FIGLI CRAVATTARI E EX MOGLI DA MANTENERE”
“Da anni non spenderò più di duecento euro l’anno per vestirmi. Bevo una bottiglia di vino ogni due settimane, ho comperato un’auto un otto anni fa. Quattro dei miei libri mi danno una rendita in diritti di circa settemila euro l’anno”…
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La questione del come campa uno scrittore italiano, se riesce o meno a vivere delle sue opere, è molto vaga, visto che molti scrivono in modo “professionale” e io, a parte due lievi capricci per vedere se riuscivo a scrivere come tutti qualcosa di “commissionato” e mediocre a puntino, no. Intanto bisogna fare la distinzione tra scrittore e autore e giornalista… e su questo distinguo sono ormai trent’anni che mi incaponisco invano… poi dipende dalle sue esigenze, dai suoi costi di rappresentanza, dalle sue vacanze, dalle sue famiglie, dai suoi viaggi, dalle sue frequentazioni, dalle sue tossicodipendenze.
Tra le quali, se è un autore per esempio di noir con commissario da ciclostile o di un qualche genere col maghetto che vola o di figa in sfumato subbuglio o di serial killer lappone, non va dimenticato il numero dei suoi non lettori che aspettano con ansia l’uscita delle sue non opere.
Io, costando molto poco rispetto a quanto ho a suo tempo guadagnato, anche se non ho mai scritto una sola riga che possa essere ascritta a un genere che non rientri nella letteratura, con i miei titoli in libreria e in edicola riesco a vivacchiare niente male, ma non credo che potrei farcela se avessi dei figli cravattari per indole e degli alimenti da pagare a una qualche ex moglie.
Del resto, essere uno scrittore e tenere famiglia mi sembra un ossimoro francamente sfacciato, da incontentabili, da svergognati, ecco. Però, da solo, ce la farei anche con la metà della metà dei miei risparmi: volo, sempre più raramente, solo low cost, gli alberghi a più di tre stelle ormai mi stuccano, all’estero, e anche in Italia se non sono a casa mia, sempre più spesso compero cibo nei supermercati e lo consumo o per strada o nella camera d’albergo, non perché sia avaro, anzi, sono proprio generoso ma non con me, non posso darmi voglie e desideri e sfizi che non sento, e andare a un ristorante da solo mi imbarazza troppo, meglio una tavola calda, a Piazza del Popolo a Roma, per esempio, mangio magnificamente a quella del Canova con circa tredici, quindici euro al massimo, anche quando sono su spese altrui per via di una promozione e potrei andare tranquillamente in un ristorante dieci volte più caro, è una questione di stile, non sono mai stato provinciale nemmeno quando lo ero di fatto e poi sono troppo aristocratico e sensibile “per farmi vedere” in un dato posto frequentato da certa gente, ci andrei solo se l’oste mi pagasse dietro regolare fattura solo per l’onore di posare il mio culo su una di quelle strainculate sedie per happy few, quindi sarebbe lavoro e se lavoro non posso anche smenarci per mangiare due fregnacce superdecorate tra trenta fregne di ambo i sessi del cosiddetto bel mondo, mi fa vomitare già il solo intravederlo da lontano;
da anni non spenderò più di duecento euro l’anno per vestirmi e prima abiti e scarpe facevano parte dell’armamentario in dotazione a Cinecittà, non mi sono mai ubriacato una sola volta, berrò una bottiglia di vino in due settimane, in tutta la mia vita ho tirato tre boccate di uno spinello che mi sono bastate per sempre tanto mi ha fatto schifo, non ho mai speso il costo di una pizza per corrompere qualcuno sessualmente o ideologicamente, anche se ho frequentato prostituti e prostitute pagandoli carissimamente per il tempo che mi regalavano in chiacchiere mentre cercavo di rimettergli le mani a posto, a me i lavoratori del sesso fanno tenerezza e la tenerezza non porta certo alla durezzzza;
insomma, non ho vizi da spurgare col portafoglio, a parte bere ormai quasi solo acqua minerale, cosa che mi fa sentire un po’ schifiltoso viziato ma sono troppi i rubinetti da cui esce schifezza tossica e non posso permettermi un’altra epatite, devo ancora redigere la lista di tutti i centrini e le pattine lasciatimi da mia madre, saranno non meno di cinquemila, non ce ne sono due uguali, proprio come me.
Spendo in cure fisioterapiche per due ernie e megacolon, cioè stipsi, e per riabilitazione da artrosi della deambulazione, questo sì, e non ho mai scaricato un centesimo dalle tasse, quindi sono più che mai cazzi miei che non gravano affatto sui cazzi generali o sottotenenti dei servizi pubblici; ah, dimenticavo: ho comperato un’auto un otto anni fa, dal contachilometri avrei fatto circa quarantottomila km, però cinquemila li ha fatti gente a cui l’ho prestata e non so quanti altri i ladri che me la rubarono – non per sempre, purtroppo.
Ho fatto dei piccoli investimenti, uno più fallimentare dell’altro, mi è andata bene: meno soldi da sperperare regalandoli e quindi meno malintesi e gelosie tra poveri in tutti i sensi da redimere.
Eh sì, poi ho spese d’avvocati, notevoli spese legali per querele fatte e subite, anche se quelle subite vanno sempre in porto, più sono stupide e farlocche e talvolta intemerate più trovano il loro intransigente gip per grazia rabdomantica, mentre quelle che sporgo io iniziano il loro iter, semmai lo iniziano entro tempi umani, con una richiesta di archiviazione; adesso quel tale Emilio Riva dell’Ilva di Taranto che mi querelò e mi chiese mezzo milione di danni è pure morto, processo sospeso, per mia rassegnazione nei confronti dei tempi e dell’assurdità del processo civile in Italia, se no sarei andato avanti per chiedere io i danni a lui, ma che fai, coi morti del tutto non c’è gusto, un po’ vivi lo devono essere, ho avuto solo spese e nemmeno la soddisfazione di dirgli il resto in tribunale, quel che penso di lui e degli imprenditori come lui, ma non sono i soldi peggio spesi nella storia dei miei processi, che perdo anche quando vinco, perché la legge non mi permette di contrattaccare, come quello con Veronica Lario, che ha perso, sì, ma non si sa cosa, perché io di certo vinto non ho, ho perso persino le spese che mi è costata questa stravaganza da zarina brianzola, mentre lei ha perso solo per il fatto di non aver vinto e stop, e per tacere di un’appendice consegnatami da un ufficiale giudiziario, partita dalla Procura di Milano, in cui si chiedeva di riaprire il caso per infine trovarmi colpevole e di cui non so più niente, mi hanno detto che quel giudice che l’ha redatta non è nemmeno più lì ma che sarebbe a Varese occupato in cosa non so, mi piacerebbe tanto vedere che faccia ha e sapere a quale altra pensione d’oro o d’argento contribuisco con le mie tasse di scrittore che a sessantasei anni non ha nemmeno una minima di latta;
solo chi è in malafede o è un ruffiano o un furbo all’inizio di un processo può mai dire che ha fiducia nella magistratura, io è una fiducia che ho perso sin dalle mie prime battute nei tribunali: dal primo all’ultimo grado di giudizio credo proprio che a questa casta vada dato un giro di vite, tanto nella loro libertà di giudizio… che verrebbe inficiata per esempio abbassandogli emolumenti e pensioni da re Mida… non ci crede più nessuno;
i giudici italiani sono un po’ come i giornalisti italiani che vedono in pericolo i loro privilegi allorché si ventila una legge restrittiva di qualcosa: reclamano la libertà di stampa proprio per poi tenerla meglio alla larga da sé, noblesse oblige. Troppe mele marce con l’ermellino, ne siamo quotidianamente informati, e anche una sola sarebbe troppo se tutte le altre fossero davvero sane. Ma si sa, tengono tutti famiglia, per l’appunto.
Per me un giudice, dovendo esercitare il coraggio che gli altri comuni cittadini non hanno, dovrebbe proprio essere come uno scrittore, ma non uno scrittore qualsiasi, uno scrittore come me: un asceta felice, un misantropo spiritoso. Uno che ha lavorato troppo indefessamente su di sé e sull’estetica del linguaggio… e tralasciamo pure l’etica che ne consegue come l’intestino allo stomaco… per accontentarsi di essere corruttibile o addirittura corrotto come qualunque morto di fame e di fama.
Un Ulisse insensibile alle sirene della mondanità, un asociale per rigore di sentimenti, un anaffettivo verso le proprie stesse debolezze, e ovviamente anticlericale e antimassonico non plagiabile dal mito del culto della personalità e dell’elezione, tanto meno altrui. Un eroe senza averne l’aria e senza darsi arie. Un antisalvatore che non se la tira. E tanto forte da restare inscalfibile davanti alle tante infamie che una moralità assoluta come la sua compassione e la sua terzietà di giudizio gli procurerà.
Non saprei bene cosa dire del mercato. Dipende se uno è Busi o se è una Carolina Invernizio rediviva, siamo sempre lì. È già tanto se troverò ancora un editore che non sia lui a chiedere un anticipo a me. Rispetto agli anni Ottanta e Novanta, poi, il mercato è cambiato tanto che di più non sarebbe possibile, superfluo ora elencare le note ragioni di rivoluzione tecnologica e il fatto che i punti vendita si sono dimezzati, si contempli solo un aspetto: sono finiti i tascabili, per esempio, una tiratura di tremila copie può giacere a magazzino per un lustro; la morte dei tascabili significa la morte del catalogo, cioè delle opere pregresse, fatti salvi i pochi titoli consigliati dalle scuole dell’obbligo, sempre più illeggibili tanto sono obsoleti per le nuove sensibilità anche adolescenziali.
Poi io non sono molto aggiornato, non ho dati, sembra che nessuno ne abbia più o li voglia più dare, in libreria non ci vado più o se ci vado non chiedo più niente ai commessi, compero e me la batto, inoltre l’editoria non rientra più nei miei hobby, fino a tutti gli anni Novanta sapevo tutto di almeno trecento case editrici nel mondo, un mondo estinto: oggi se aspiri a incontrare un intellettuale, non sarà certo nelle redazioni di una superstite casa editrice, fanno così pena, non possono esprimere più niente che non vada oltre la politica di vendita o la politica tout court del loro impurissimo editore di riferimento, sono dei travet ai ceppi, solo che glieli hanno messi alle tempie.
Ammetto di essere rimasto così fedele a me stesso quale scrittore che vado orgoglioso del fatto di poter affermare, senza tema di poter essere smentito, di non intrattenere nessun rapporto con nessun editor o direttore di collana, tanto sarà una collana finto Bulgari, una cineseria milanese o romana o fiorentina, una cialtroneria italiana depistata da un piccolo foglio quotidiano tanto per sfruttare l’empia legge sugli aiuti di Stato all’editoria.
L’editoria italiana muore anche a causa delle troppe marchette che deve concedere “in cambio di”, altro che libero mercato! Se avessi un romanzo finito, non saprei proprio a chi tirarlo dietro, cosa che in questo mondo di “amici” e di “conoscenze” non è da tutti, però è da me e questo mi basta e avanza. E comunque, non ho alcun romanzo né finito né cominciato, meglio specificarlo, se no, come tre anni fa, si fanno avanti quelli del self publishing e poi mi dicono che sono solo un cialtrone supponente, che la devo smettere di lamentarmi, che adesso ci sono loro a salvarmi dall’oblio.
Be’, il giusto è una convenzione nel tempo tra le parti e di per sé ballerino, no? Nureyev a fine carriera non poteva chiedere gli stessi cachet di trent’anni prima, e non è detto che uno scrittore o un autore e persino un “magistrato e scrittore” e un “giornalista e scrittore” e, da psichiatria grave oltre ogni speranza di riabilitazione, “editor e scrittore” e una “parlamentare e scrittrice” e un altro “comico e scrittore” a piacere migliori col tempo i suoi standard contrattuali.
Innanzitutto: mai chiedere, mai proporsi, mai cercare, mai offrire le proprie specializzazioni culturali, e quindi anche pragmatico-letterarie nella forma di un libro fatto e finito, come se il favore te lo facesse chi intende avvalersene come se tu fossi un lecchino di Stato con mille prebende che ti mantengono in panciolle… certo, non lo devi essere… o la tua specifica qualità professionale o artistica che sia fosse frutto di manna “raccomandata” dal cielo e non di sforzi, sacrifici, dolore tenuto sotto controllo e spese, spese, spese vive oltre ogni dire, libri, cibo, scuole private, viaggi, mezzi di trasporto, malattie da curare senza mutua, disoccupazione, indigenza, emarginazione e stringere la cinghia e i denti e avanti; rendersi semmai disponibili a una trattativa ma dettare le proprie condizioni e di conseguenza mai sminuirle nel corso della trattativa stessa, mantenere la propria forza contrattuale, qualora uno scrittore riuscisse mai ad averne una, e io ce l’ho, curata e oliata di ora in ora come il bene più prezioso: meglio un sì a prezzo pieno che mille a una cifra deprezzata, altrimenti resistere, farli diventare mille e un no e in culo a tutti;
parlare di anticipi significa cavarne un suono a fisarmonica, non c’è una regola, a parte il venduto del titolo precedente, e poi io non ho mai avuto un agente, ho trattato sempre a tu per tu con gli editori italiani, degli altri me ne sono impipato non male, non ho mai aspirato a diventare internazionale, è una cosa possibile in vita solo a un pennivendolo di luoghi comuni e di plot un tanto a pagina con un linguaggio aeroportuale che avvisa i signori passeggeri di infilarsi in quel dato gate alla data ora e morta lì, supposte un tanto al chilo per sfinteri di bocca buona, avrei preferito fare carriera come truccatore di Platinette per darle solo colori leggeri, una sfida contro la stessa legge di gravità, e su quanto e come mi hanno tradotto meglio sorvolare, certo nessuno ha tradotto me come io ho tradotto altri da tre lingue, e non mi si venga a dire che sarei difficile, come se io fossi una merla bianca con la cresta del gallo cedrone con la corteccia di una palma da dattero e la penna di un’araba fenice: gli editori stranieri hanno preteso di far tradurre i miei libri in tre mesi allorché un anno e mezzo a testo sarebbe stato poco;
parliamo invece di lavoretti culturali collaterali, lì c’è una misura abbastanza ferma: se per una prestazione di lavoro televisione o serata di intrattenimento che sia mi si chiede uno sconto una volta comunicato il mio compenso, automaticamente aumento del 15%; talvolta, sebbene rarissimamente, mosso da chissà quali fili dell’umana compassione… sono giovani, c’è in ballo una causa per raccolta fondi travestita da raccolta fondi per una causa, la tematica è particolarmente interessante… sono andato a titolo gratuito pagandomi pure lo spostamento: mai una sola volta che non mi sia pentito amaramente; quindi, se devo patire per l’ignoranza degli anfitrioni a scrocco, la scadente accoglienza e l’organizzazione sciatta, tanto vale che mi faccia pagare… con pagamento anticipato o cambia la giunta della madama Verdurina in loco e non li vedi più… mangio meno bile e mi dico, “il lavoro è lavoro, mica te lo puoi sempre scegliere” e vado almeno in parte in pari con l’umiliazione mandata giù e l’odio per me stesso.
Ricevo al momento offerte a fronte di tremila euro al lordo, che di questi tempi è davvero un lusso, ma per meno di seimila al lordo, con Irpef a intero carico del datore di lavoro, non mi muovo, e anche quest’anno ci sono stati premi che mi hanno contattato, malgrado quanto mi sono degnato di far sapere in occasione di Strega e Viareggio, e tutti sono rimasti scandalizzati perché volevo seimila euro di anticipo a perdere solo per mettervi piede, e una sera e stop; non parliamo poi degli enti che mi invitano di qui e di là in cambio di ospitalità al mare e in montagna, con gentile consorte al seguito, volessi, in cambio di una prolusione in piazza, cioè una piazzata, a quelli chiedo diecimila minimo, mi diverto come un furetto, li tiro pazzi di mail in mail, che finiscono tutte all’archivio e in doppia copia, per sicurezza. Beati i posteri che potranno leggerle!
E beato soprattutto l’archivista che può leggerle in tempo reale. Lui è l’unico essere umano che invidio: può leggere subito gli inediti di Aldo Busi che Aldo Busi non solo non leggerà mai ma che non ha neppure letto prima di premere “invio”.
Li posso dedurre solo dalle mail di risposta, un delirio dalla ridarella, e faccio versi e batto mani e piedi come un bimbo al circo. Gli italiani sono così scontati anche come aspiranti puttane, passano dall’untuoso all’insultante con una tale prontezza di riflessi che gli manca solo il naso rosso a palla e i pomelli di biacca e poi sono perfetti; le labbra da pompinari di mestiere, anche se a lama di coltello tipica dei vampiri con la tonaca in civile, ce le hanno in dote dalla genetica levantina. Sono le puttane clown delle istituzioni, divertenti, assessorili, di clan in clan, ma qualcuno deve pur dirgli di stare al loro posto.
Però, il fatto che siano così anche a sessanta, a settant’anni significa che nessuno fino a quel momento gli ha tolto la maschera e che quasi tutti hanno preferito farsene mettere una in più. Il fatto che io non abbia un solo pieno riferimento umano, intellettuale, civile, politico e sessuale in Italia ma solo qualcosina qui e là, e spesso perché chiudo momentaneamente un occhio, qualcosa vorrà pur dire di certo: che non è colpa mia se è un paese di svaniti e di svaniti nel nulla, cioè in se stessi. Non c’era bisogno di far riferimento a chiappe teutoniche, gli italiani sono dei culoni inchiavabili anche se magri: non senti attrito, troppa vaselina vecchia di secoli.
Preoccupazione superflua, oggi nessuno li pubblicherebbe. Non ci si dimentichi che oggi io non ho un editore, e che in verità non l’avevo nemmeno quando l’avevo, solo degli stampatori con una qualche rete di distribuzione, vera promozione alla mia opera non l’ha fatta mai nessuno, ho sempre fatto io anche il loro lavoro – già che ci sono, ne approfitto per rendere noto che da qualche mese la Rizzoli dispone di miei quattro titoli in economica, oltre alla mia traduzione del Decameron e di Alice nel Paese delle Meraviglie che si vendono a un ritmo da bestseller e che da soli mi danno una rendita in diritti di circa settemila euro l’anno.
Ma, se torno indietro di trent’anni, non essere pubblicato non mi stupirebbe nemmeno oggi, mi stupirebbe il contrario, proprio come allora: quando si pubblicò Seminario sulla gioventù, avevo del tutto pronto Vita standard di un venditore provvisorio di collant, ero a metà de La delfina bizantina e Sodomie in corpo 11 era già quasi alla fine, facevo ogni lavoro onesto che raccattavo in giro, pesavo 67 kg e avevo attacchi di nevralgia del trigemino, passavo da uno scolo all’altro, da un aguzzino di albergatore o di industriale cui fungevo da interprete all’altro, avevo un’auto di quarta mano che mi lasciava sempre a piedi e non ho mai per un istante pensato che avrei potuto vivere di diritti d’autore, credevo che non sarei stato scoperto nemmeno dopo morto, un Kafka basta e avanza, a me i lavori di fatica non facevano spavento, peccato fossero pagati così poco, quindi un po’ benestante mi proponevo di diventarlo, ma senza strafare, a me interessava scrivere e scrivere e scrivere, avevo iniziato a sette anni, era un fuoco che mi divorava, e il fuoco tanti calcoli non li fa neanche: anche se non pubblicato, avrei continuato a scrivere fino a El especialista de Barcelona, fino a E baci, fino alla ristesura di Sentire le donne, e pazienza.
I calcoli li faccio adesso, retrospettivamente, perché la vecchiaia comporta tante cose che si spengono via via e che non per questo sono meno appassionanti, anche se ormai solo per me e la compagnia che mi fa il mio cervello, che mi sembra stranamente ancora più infinitamente sorprendente di prima, però è bene che non pretenda più di sorprendere qualcun altro a parte il proprio riflesso tra sé e sé.
E poi, la verità: non me ne è mai importato un fico secco della ricezione, vuoi del consenso vuoi del dissenso vuoi dell ’ indifferenza, tutto messo in conto e buttato dietro le spalle. Certo, ho giocato un po’, con i media, per vedere se, al di là del sapere per fare poi la spia nei miei romanzi, riuscivo a darmi una tenuta finalmente borghese, di Gran Cazzone omologato alle patrie lettere perché troppo coniglio e mammolone per esserlo alle patrie galere, almeno come aspirazione da Cattivo Maestro e da politico vuoi mancato vuoi riuscito.
Sono lo scrittore che sono perché sono l’uomo che sono, non c’è scissione, anche se la vita è più importante di qualsivoglia opera e operetta, ma quella l’ho data per persa da subito e non me ne sono mai pentito. Uno scrittore! In Italia, poi! S’era mai vista prima una cosa così? Quindi bisognava renderla come minimo invisibile, e così è stato. Però io qui ci sono ancora, e se è per questo anche l’Italia, con la differenza che io qui ci sarò sempre, l’Italia no.