Giusepe Conte, Il Giornale, 10 VII 2019
Keats e Holderlin: alle radici dell’anima (perduta) dell’Europa
Nell’ampio ma spesso anche stanco e stereotipato discorso sulle radici dell’Europa sono state sempre sottovalutate quelle che affondano nel terreno del grande Romanticismo. È certo fondamentale l’apporto dell’Illuminismo nel definire i principi politici e sociali a cui l’uomo europeo si ispira: libertà individuale, diritti civili, tolleranza, democrazia, ragione. Ma per capire la grande costruzione spirituale che chiamiamo Europa non possiamo fare a meno di parlare anche di passione, bellezza, senso del sacro, senso della natura, dimensione cosmica dell’essere, tutti valori cui furono i poeti per primi a dar voce. Nella sintesi di Victor Hugo: dopo i diritti dell’uomo, vengono i diritti dell’anima. E non è detto che siano meno importanti.
Riflettevo su questi temi leggendo due Meridiani Mondadori (isola felice di alta cultura nell’editoria contemporanea) usciti da poco, uno dedicato a John Keats (Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Nadia Fusini, pagg. 1477, euro 80), l’altro a Friedrich Hölderlin (Prose, Teatro e Lettere, a cura e con un saggio introduttivo di Luigi Reitani, pagg. 1763, euro 80). Mentre leggevo, coglievo degli imprevisti parallelismi tra i destini dell’autore inglese e di quello tedesco, oggi sempre più riconosciuti come figure capitali del Romanticismo europeo. Tutti e due subiscono il dramma della condizione di orfano. Keats di padre e di madre, Hölderlin di un padre naturale e di uno acquistato con il secondo matrimonio di una madre che rimarrà a lungo assente dalla sua vita. Tutti e due sentono il fascino delle idee politiche rivoluzionarie che vengono dalla Francia, Keats, che pure era di umili origini e fu considerato poeta «plebeo», in maniera più cauta, Hölderlin, di famiglia borghese benestante, con una più forte partecipazione filosofica. Entrambi rifiutarono in nome della poesia di avere un ruolo e un mestiere definito, Keats lasciò la medicina, Hölderlin, che ebbe una formazione teologica, la prospettiva di fare il pastore e poi l’attività di precettore in case aristocratiche. Entrambi vissero amori complessi, mentali, segnati da difficoltà e tragedie: Keats con Fanny Brawne, la «carissima signorina» di una lettera datata 1 luglio 1819, che l’8 dello stesso mese diventa «mia dolce ragazza» e il 15 «amore mio», Hölderlin con Suzette Gontard, la giovane moglie di un banchiere, che il poeta trasfigurò in Diotima e la cui morte precoce non fu estranea al suo ingresso nella follia.
La malattia alla fine infierì su entrambi: Keats morì a 26 anni di tisi, nonostante il suo trasferimento in Italia in cerca di un clima migliore, Hölderlin visse a lungo, ma i disturbi nervosi divennero tali che fu costretto a passare più di metà della sua esistenza in isolamento nella torre sul Neckar presso il falegname Ernst Zimmer, calato in tante identità fittizie sino a quella di Scardanelli, con cui firmò i suoi ultimi scritti. Le affinità tra i due poeti riguardano, oltre che il loro destino, le loro idee: sono affascinati dalla Grecia, ricorrono al mito in una chiave non ironica o didascalica come avevano fatto i poeti illuministi ma ricercando in esso i primi principi della conoscenza, hanno una predilezione per la natura che vedono come sacra, e per la bellezza di cui intuiscono la forza redentrice. Entrambi conoscono il senso dell’accomiatarsi, della partenza, della perdita, come sottolinea Nadia Fusini nella sua introduzione a Keats. Entrambi lasciano opere incompiute, ampi frammenti folgoranti. Condividono persino l’attenzione a un mito, quello di Iperione, il Titano che combatte sino all’ultimo per la salvezza della sua stirpe. Keats ne fa l’eroe di un poema esiodeo. Hölderlin ne dà il nome al protagonista del suo romanzo, Hyperion o l’Eremita in Grecia, un romanzo epistolare in cui Hyperion, giovane greco, narra al suo corrispondente tedesco Bellarmin la sua passione di combattente per la libertà della sua patria, il suo amore tormentato per Diotima, la sua disillusione profonda una volta giunto in Germania, e il ritrovamento della pace nella contemplazione della armonia segreta della natura e del cosmo. Keats è sulla stessa linea a cominciare dal celeberrimo verso iniziale dell’Endymion: «Una cosa bella è una gioia per sempre:/ cresce di grazia, mai passerà/ nel nulla…». Il mondo è «la valle del fare anima», la bellezza è verità, la verità bellezza (Ode su un’urna greca).
In modo visionario, la versione illuministica delle cose viene integrata, e messa in discussione, dalla attenzione ai temi che la ragione e l’utile trascurano: affiora una religione laica della natura, del simbolo, dell’anima destinata ad avere sviluppi soltanto molto più tardi. In due brevi scritti teorici Hölderlin dichiara il suo amore per la figura di Achille, «enfant gaté della natura», che Omero lascia sullo sfondo dell’Iliade per non profanarne l’immagine dolente, vendicativa, commovente, terribile. Ulisse è «un sacco di monete spicciole», in cui c’è da contare per un pezzo: Achille è una moneta d’oro, unica e intangibile. La letteratura dell’Occidente ha scelto Ulisse come suo punto di riferimento, nessuno invece, neppure Goethe, è riuscito a raccontare compiutamente Achille. È la sua giovinezza fatale che affascina Hölderlin, il suo essere un eroe perdente. Come è stato lui, come è stato Keats. Perdenti, eppure eroi di una stagione di sogni, passioni, bellezza che ha dato tanto all’anima della Europa, oggi così propensa a dimenticarsi di avere un’anima.