Gianluca Veneziani, Libero Quotidiano, 25 I 2021
DE RITA: “NON C’E’ LO SPIRITO DI RICOSTRUZIONE DEL ’44-’45 PERCHE’ CI SIAMO MANDATI TUTTI A FANCULO”
Stiamo diventando più paurosi, più passivi, meno liberi. E anche più cattivi e più cretini. A metterci su un lettino da psicanalista di massa, ci ha pensato un intellettuale lucidissimo che da oltre 60 anni studia le evoluzioni della società, provando a comprendere come muti il carattere degli italiani. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, 88 primavere alle spalle, dal suo punto di vista privilegiato ha osservato la situazione sociale legata all’emergenza Covid. Ne è venuta fuori l’immagine di un popolo allo sbando che ha rinunciato al suo spirito vitale.
De Rita, sul Corriere della Sera lei ha descritto tre condizioni che caratterizzano gli italiani al tempo del Covid, quelle di vivere in trance, in letargo e da internati. L’emergenza sanitaria sta causando l’eutanasia di un popolo?
«Già nel rapporto Censis di dicembre veniva fuori che l’opinione sotterranea di molti italiani è “meglio sudditi che morti”. In nome della paura stiamo accettando vincoli e modi di comportamento che inibiscono la nostra vitalità e la ricerca di obiettivi comuni. Assistiamo così a un rannicchiarsi degli italiani entro se stessi, nel proprio egoismo, da cui derivano processi, se non di degrado, almeno di regressione psicologica collettiva».
Il rischio maggiore è l’assuefazione, cioè la convinzione che questo stato di privazione sia la normalità?
«Sì, e ciò riguarda soprattutto la condizione di vivere quasi da popolo internato. Quando parliamo di internamento, pensiamo a un carcere, un manicomio, un convento di clausura. In tutti questi casi il meccanismo interno è l’infantilizzazione. Cioè si trattano le persone come bambini, dicendo loro: questa cosa non la puoi fare, questa cosa non la puoi mettere, ti devi lavare bene. Ovviamente non viviamo in senso stretto in internamento, però molte assonanze ci sono: l’obbligo di rispettare regole di minimale comportamento igienico, l’uso della mascherina come divisa da internato, e l’idea che non si possa uscire neanche per andare al bar sono diventati fatti normali. E questo è molto pericoloso. Dal letargo, cioè dallo stato di indolenza, sarà più facile uscire, dall’internamento no».
Oltre che più rassegnati e meno liberi, gli italiani sono diventati più poveri intellettualmente? E quindi più cretini e meno creativi?
«Sì. in realtà in tutti i momenti della storia italiana ci sono stati due modi di esprimere creatività: in comunità o da soli. Noi abbiamo sempre esaltato la dimensione individualistica della creazione, i grandi solitari alla Leopardi. Nei fatti però abbiamo avuto spesso una creatività di gruppo, dalla scuola di Giotto al Barocco. Ho l’impressione che la fase che stiamo vivendo, producendo molta solitudine, possa ridurre la creatività, la capacità dell’arte di fare cultura condivisa».
Gli italiani sono diventati anche più cattivi? Nel rapporto Censis emerge come buona parte delle persone chieda pene più severe per chi non rispetta le regole.
«La storia sociale di questo Paese non è mai stata pacifica. Non siamo gente tranquilla, ma persone che si sono odiate a morte, hanno fatto guerre civili. Questa tendenza si è acuita con la pandemia: ora ci sentiamo protetti solo quando siamo con noi stessi, e se c’è qualcuno intorno per noi è un pericolo. Dal rintanamento in sé nasce l’egoismo e da lì scatta la cattiveria».
Perché nell’Italia di oggi manca lo spirito di ricostruzione che ha animato il secondo Dopoguerra?
«Nel ’44-’45 era finito tutto, non c’era più niente cui aggrapparsi, eppure il meccanismo della ricostruzione ha funzionato. Allora c’era sia l’individualismo, la voglia di sopravvivere, sia la dimensione collettiva, il voler ricominciare la vita di relazione: prendemmo a ridarci del tu, a parlare tra di noi. Invece oggi abbiamo distrutto la relazione: non solo a causa del consumismo per cui le persone contano meno dei prodotti, ma anche per un elemento più tragico, e cioè l’irruzione del Vaffa nella dimensione politica e sociale. Ci siamo mandati tutti a fanculo. E questa perdita della relazione ci crea meno vitalità nella costruzione del nuovo. La pandemia poi ha fatto esplodere questa condizione e l’ha fatta sentire a tutti».
Della mutazione degli italiani quanto sono responsabili i politici al governo?
«Sono convinto che i processi siano a doppia firma: c’è una responsabilità sia della società che della politica. È vero che un terzo del Parlamento è fatto dai grillini che non sono in grado di governare. Ma è anche vero che la capacità della società italiana di immaginare il futuro è più coerente con i grillini che con altri. Ricordo una vecchia discussione tra Moro e Andreotti. Il primo sosteneva che la politica dovrebbe guidare la società verso obiettivi nuovi e progressivi. Andreotti rispondeva: la politica non deve guidare la società, ma rassomigliare alla società, se vuole il consenso. Questa frase rappresenta quanto è successo negli ultimi anni in Italia: la politica cerca di essere uguale alla società. Se la società è becera, il politico è becero. Se la società esprime dei bisogni, si risponde ai bisogni. La società chiede cassa integrazione, bonus monopattino e bonus vacanze? La politica darà loro queste cose. È così che si crea il consenso. Ma questa è anche la tragedia del modo in cui viene gestita l’emergenza: tale rapporto vicendevole, quasi di complicità, tra società e politica esclude una visione di lungo periodo».
Tra Recovery Plan e piano vaccini stiamo assistendo però a un’incapacità tecnica di governare.
«Già in passato ai politici mancava la competenza tecnica, ma essa era delegata all’establishment, ai grandi funzionari dello Stato. La sfida degli ultimi anni è stata invece ammazzare la Casta: ma se tu abbatti l’establishment, vengono meno anche quelli che hanno la capacità tecnica di governo. In questa battaglia abbiamo perso tutti, mentre è chiaro chi ci abbia guadagnato politicamente, il grillismo».
Lei è stato un uomo della Prima Repubblica. Trova offensivo per i protagonisti di quella stagione definire “pratiche da Prima Repubblica” il trasformismo di oggi?
«L’attuale realtà non solo offende la Prima Repubblica, ma prescinde da essa. La Prima Repubblica è stata una grande cosa, segnata dallo scontro durissimo tra Dc e Pci. Il trasformismo cui stiamo assistendo è invece un processo vecchio ma di livello molto più basso. Sono più opachi i meccanismi di acquisizione dei parlamentari, spesso basati su pettegolezzi privati, che servono solo a coprire la mediocrità dei protagonisti».
Il rapporto Censis parla di oltre 600mila posti di lavoro persi per la pandemia. Gli italiani continueranno a subire o si ribelleranno?
«Credo che prevarrà la propensione all’accettazione e non alla rivolta. La “bontà” del potere ci garantirà sempre la cassa integrazione, un ecobonus, un incentivo per fare smart working. E così, anziché contestare, accetteremo passivamente il declino».