Luca Fazzo, Il Giornale, 15 XI 2014.
Avvocati troppo “casual”: toghe e bavaglini per tutti.
La Corte d’appello richiama i legali al rispetto delle norme. Dal primo gennaio “divisa” obbligatoria nel corso delle udienze.
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Milano – Si dirà: i problemi della giustizia sono ben altri. Ma mentre si mette mano (o si cerca di farlo) alle riforme che dovrebbero tagliare i tempi biblici che portano all’esasperazione i cittadini, ai processi che durano vent’anni e sopravvivono ai contendenti, ai giudici che dimenticano di scrivere le sentenze eccetera, anche stare attenti alle forme può avere una sua importanza.
Questo hanno deciso a Milano, in Corte d’appello, mettendosi sulla scia di quanto già avviene a Roma o a Torino. Anche nelle udienze dei processi civili, toga obbligatoria per tutti; e insieme alla toga il «bavaglino», accessorio dalle origini incerte e dalla utilità non chiara. Giacca e cravatta non bastano a garantire quel minimo di decoro che fa parte dei riti, e in qualche modo della sostanza, della giustizia.
Lo ha deciso Giovanni Canzio, presidente della Corte d’appello di Milano: un magistrato con la fissa dell’efficienza (tanto da venire accusato di «aziendalismo»), che quando è arrivato a Milano ha messo sotto pressione un palazzo di giustizia dove i ritmi di lavoro si erano fatti blandi, e dove sotto l’alibi della mancanza di personale si accumulavano arretrati. Per Canzio la prova milanese doveva essere il trampolino verso la presidenza della Cassazione. Invece la riforma di Renzi ha avviato anche lui, come tutte le toghe settantenni, verso la pensione. Ma Canzio, evidentemente, non ha rinunciato a lasciare la sua traccia anche estetica.
L’idea, a dire il vero, nasce quasi dal basso, nei preliminari di una riunione dei presidenti di sezione: anche loro abituati a presentarsi in udienza in abiti borghesi. Qualcuno solleva il problema del decoro di udienza, dopo una discussione collettiva i giudici decidono: si torna al passato, alle consuetudini abbandonate. D’ora in poi, andiamo in udienza con la toga e il bavaglino. E, per par condicio , dovranno farlo anche gli avvocati. Il 3 novembre scorso Canzio scrive all’Ordine degli avvocati annunciando la novità. Per assicurare «il dovuto rispetto anche delle forme di esercizio della giurisdizione e di rendere più saldo il prestigio di coloro che ne sono protagonisti», tutte le «udienze pubbliche» dovranno adeguarsi al nuovo look .
La regola esisteva, non veniva rispettata, e che questo accadesse nel tempio della giustizia era probabilmente un segnale negativo. Questo lo spirito della svolta voluta da Canzio: a costo di sfidare brontolii e battute. C’è chi fa presente che i giudici stanno seduti al loro posto, mentre gli avvocati spesso devono aspettare in piedi e a lungo; c’è chi fa presente che non sempre è chiaro, spulciando tra il codice di procedura civile e le sue norme di attuazione, quali udienza siano pubbliche e quali semplici camere di consiglio, e come tali esonerate dall’obbligo di toga; e c’è ovviamente chi se la prende con il maquillage di una giustizia che nella sostanza continua, con buona pace degli sforzi di Canzio, a mostrare tutti i suoi difetti. La vita quotidiana della giustizia milanese continua ogni giorno a arricchirsi di episodi che mostrano una realtà non facile: giudici che vengono accusati di maltrattare gli avvocati, e – questa è recente – persino giudici che bisticciano tra di loro in udienza, davanti agli avvocati allibiti, «guarda che il presidente sono io», «sta zitto tu che stai per andare in pensione»; e in fondo anche il caso di Enrico Tranfa, il giudice del processo Ruby, andato precipitosamente in pensione lasciandosi alle spalle quasi centoventi sentenze da scrivere, è il segnale di una struttura dove non tutto funziona a dovere. Il mugugno verso l’aziendalismo di Canzio anima i dibattiti da corridoio, e talvolta gli imputati hanno la sensazione di pagare loro il malumore dei giudici. Da domani, i guai della giustizia saranno gli stessi. Ma chissà mai che quella toga e quel bavaglino non richiamino tutti a fare meglio il proprio dovere.