Marco Filoni, Venerdì di Repubblica, 4 XI 2022
Byung-Chul Han: con lo smartphone non si può fare la rivoluzione
In una nuova raccolta di saggi il filosofo coreano/tedesco prosegue la sua opera di critica radicale alla nostra epoca “ribellarsi è impossibile: siamo sottomessi ma devoti”. Intervista
Nell’abito dell’apocalittico ci sta comodo. Il filosofo Byung-Chul Han ha indossato i panni della Cassandra e, con piglio nichilistico e rigore tutto teutonico (è di origine coreana ma tedesco d’adozione), ha avviato una radicale critica della nostra epoca. Il digitale e l’invadenza della tecnologia; il narcisismo collettivo; l’erosione della comunità e la perdita dei riti; lo sfrenato capitalismo neoliberista che ci ha trasformati in un drappello di consumatori seriali e indiscriminati; e così via – questi alcuni degli aspetti sui quali il filosofo ha poggiato il suo sguardo, ineludibile.
Per scrivere queste sue severe analisi l’autore non invoca mai nessuna musa: glaciali, le sue pagine hanno una grana sempre troppo fine – aspetto che gli ha portato qualche critica e molto, molto successo. I suoi libri sono letti, discussi, commentati. Ora arriva in libreria una raccolta dal titolo Perché oggi non è possibile una rivoluzione. Saggi brevi e interviste – come sempre ottimamente tradotta da Simone Aglan-Buttazzi per le edizioni nottetempo. Ed è l’occasione per fargli qualche domanda.
Secondo lei uno dei motivi dell’impossibilità, oggi, di una rivoluzione, è la trasformazione del potere: prima era disciplinare, ora fa sì che tutti noi ci sottomettiamo volontariamente.
“Kafka scrive in un aforisma: ‘L’animale strappa di mano la frusta al padrone e si frusta da sé per diventare padrone’. Frustandosi, l’animale crede di essere libero. Noi ci sfruttiamo volontariamente – e appassionatamente – nell’illusione di realizzarci. Quindi la coazione distruttiva non viene esercitata tramite l’Altro, bensì tramite me stesso. Scaturisce dalla mia interiorità. Io non vengo sfruttato dal mio padrone, mi sfrutto da solo. Sono al contempo servo e padrone”.
E questo avviene perché, come scrive, il sistema di dominio neoliberista si è trasformato da repressivo a seduttivo?
“Il neoliberismo è un capitalismo del mi piace. Esso si distingue in maniera sostanziale dal capitalismo dell’Ottocento che lavorava per mezzo di costrizioni disciplinari e divieti. Il potere del regime neoliberista si muove in chiave smart. Questo potere smart si stringe a noi, cerca di strapparci dei mi piace invece di subordinarci a costrizioni e divieti. Non ci impone nemmeno il silenzio. Al contrario, ci stimola continuamente affinché raccontiamo la nostra vita, affinché comunichiamo opinioni, bisogni, desideri e preferenze. Questa assoluta verbalizzazione della vita conduce a un’influenza totale sul nostro comportamento. Nel regime neoliberista il dominio non si espleta mediante l’oppressione, bensì attraverso la comunicazione. Veniamo storditi dall’ebbrezza comunicativa”.
Siamo sottomessi dall’uso che facciamo dei nostri telefonini?
“Ciascun dominio crea dei devozionali impiegati per opprimere. Essi consolidano il dominio mediante l’habitus. Chi è devoto è sottomesso. Lo smartphone è un devozionale digitale, il devozionale per eccellenza dell’ambito digitale. Soggetto significa in origine “essere sottomesso”. Lo smartphone funge da dispositivo soggettivizzante. Il like è un amen digitale. Mentre noi clicchiamo sui like, ci sottomettiamo al contesto di dominio. Lo smartphone non è solo un efficace strumento di sorveglianza, ma anche un confessionale mobile. La confessione era una tecnica di dominio molto efficace. Noi continuiamo a confessarci, ma digitalmente. Ci denudiamo di nostra sponte. Nel farlo non chiediamo perdono, bensì attenzione. Lo smartphone sopprime qualsiasi rivoluzione”.
Quindi come ne veniamo fuori?
“Nel suo libro Il capitalismo della sorveglianza (in italiano per Luiss University Press, ndr), Shoshana Zuboff evoca la resistenza collettiva rimandando alla caduta del muro di Berlino: “Il muro di Berlino è caduto per molti motivi, ma soprattutto perché i cittadini di Berlino Est avevano detto ‘Adesso basta!’. […] Basta! Questa dev’essere la nostra dichiarazione”. Il sistema comunista che opprime la libertà si differenzia in maniera sostanziale dal capitalismo neoliberista della sorveglianza che sfrutta la libertà. Siamo troppo presi dalla droga digitale e dall’ebbrezza comunicativa affinché possa levarsi un ‘Basta!’, una voce resistente”.
Il problema è che una voce non basta, ci vorrebbe una comunità che si solleva…
“Il regime neoliberista è un regime della paura. Esso isola le persone rendendole imprenditrici di se stesse. La concorrenza totale e l’assolutizzazione della performance erodono la comunità. L’isolamento crescente, la mancanza di solidarietà e la narcisizzazione dell’essere umano rafforzano la paura. Anche il rapporto con noi stessi viene sempre più caratterizzato dalle paure: paura di fallire, paura di non essere all’altezza delle proprie ambizioni, paura di non tenere il passo, paura di venire lasciati indietro o paura di prendere una decisione sbagliata”.
Insomma, va proprio tutto male…
“Oggi viviamo in una società della sopravvivenza. Brancoliamo da una crisi all’altra, da un problema all’altro. La vita si riduce a una mera risoluzione di problemi. Dinanzi a eventi apocalittici come la pandemia, la guerra e le catastrofi climatiche guardiamo impauriti il futuro buio che ci attende. L’ascesa delle forze populiste di destra in Europa ha proprio a che vedere con la paura crescente”.
Non resta che il fallimento come specie umana?
“L’antidoto alla paura è la speranza. È la speranza a unirci, a far emergere comunità e solidarietà. È il nucleo primario della rivoluzione. È lo slancio, il balzo in avanti. Ci apre gli occhi dinanzi a una vita diversa e migliore. La paura vive delle cose passate, del risentimento. La speranza apre al futuro. Solo lo spirito della speranza può salvarci“.
Ma cosa intende per speranza? Intende collettiva, politica? A questi ultimi interrogativi però Byung-Chul Han non risponde, sorvola, come se al nostro filosofo interessino soltanto rovine e macerie… che si sia comodamente seduto al Grand Hotel Abisso – così Lukács criticava Adorno e i suoi sodali della Scuola di Francoforte – dal quale assiste, sprezzante, alla fine del nostro mondo? Detta en passant, bisogna ricordare che sarebbe anche la nostra fine, il fallimento di tutti. Filosofi compresi.