in Dagospia, 7 VI 2014.
1. BIENNALE DI ARCHITETTURA O SALONE DEL MOBILE?
IL KOOLHAAS-PENSIERO SI DEFINISCE CON LA SEZIONE ELEMENTS OF ARCHITECTURE AI GIARDINI DI CASTELLO
Zaira Magliozzi per http://www.artribune.com/
Da Rem Koolhaas ci si aspetta sempre molto. Il suo è un nome altisonante nel panorama internazionale e per la sua Biennale, l’intero archiworld era in fermento. È per questo che la mostra Elements of Architecture al padiglione centrale dei Giardini si rivela un po’ una delusione e difficilmente potrà appassionare gli addetti ai lavori. L’operazione è messa in piedi magistralmente: in mostra non l’architettura ma i suoi elementi, scomposti, in parte destrutturati e ricomposti.
Porte, finestre, muri, balconi, ascensori, soffitti, scale, maniglie, corridoi, facciate. Tutti riletti, ripassati e presentati in parte dal punta di vista tecnologico e in parte dal punto di vista estetico. Ma per apprezzarla un architetto medio deve uscire dalla propria ottica ed entrare in un’altra, più mainstream, altrimenti il rischio è di associare la mostra a una specie di Salone del Mobile. Solo se si cambia il punto di vista si può apprezzare questa operazione radicale, dipinta come teorica ma, in fondo, forse un po’ superficiale: giudicate voi…
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2. L’ARCHITETTURA (E LA BIENNALE) DI KOOLHAAS:
MODERNITÀ GLOBALE, MA SOLO IN APPARENZA
Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera”
La XIV Biennale di Architettura, che si inaugura domani a Venezia, è una mostra corale e senza archistar. È realizzata da giovani di tutto il mondo che lavorano «con» e «nel» culto di Koolhaas e da curatori dei singoli Stati impegnati nel rispondere a un quesito: com’è stata assorbita la modernità nei diversi Paesi tra il 1914 e il 2014? «Ho chiesto ai curatori di studiare l’ultimo secolo — racconta Koolhaas —, non per celebrare il trionfo della modernità, ma per vedere come è stata assorbita in contesti non omogenei».
Per «misurare» quanta modernità è penetrata nei singoli Paesi (65 da tutto il mondo a Venezia), il team di Koolhaas ha usato parametri quali l’indipendenza e il suffragio universale, ma anche il numero di premi Nobel e la diffusione della tv, e pure il numero di negozi Ikea e McDonald’s. Si scopre che i Paesi anglosassoni e del capitalismo protestante avanzano il mondo latino e africano nella modernizzazione e che, in questa dinamica, le forme dell’architettura tendono a favorire l’universalismo. Ma questo è un aspetto controverso.
Se da un lato, sin dagli anni Trenta, l’International style ha favorito l’imporsi di un’architettura monostile (ferro e vetro, muri bianchi, aria condizionata e grattacieli ovunque) dall’altro, rivela Koolhaas, «i curatori dei padiglioni hanno ribadito l’importanza della nazione». Tanto che il pensatore di Rotterdam ha affermato ieri che «le unità nazionali resteranno un modo per guardare il mondo».
In questa dialettica tra richiesta popolare di identità e relativa nascita di nuovi Stati da un lato, e potere finanziario che impone modelli e stili di vita uniformati dall’altro, l’architettura si trova al crocevia. E pure la Biennale che, da un lato, favorisce l’affacciarsi sul mondo culturale delle nuove identità nazionali e, dall’altro — oltre «a portare il mondo a Venezia e Venezia al mondo» (Baratta) — seduce al globalismo (la scomparsa della lingua italiana, ad esempio).
Questa dialettica, come mostrano gli stand all’Arsenale, non è risolta. Si lotta per avere un proprio Stato, ma i confini tra le nazioni sono così instabili che in Italian limes si mostra come la linea displuviale di confine tra Italia e Austria si muova ogni secondo. Si parla di identità, ma come mostra Countryside worship in «vent’anni l’Italia è diventata un modello complesso di diversità religiosa». Si parla di biodiversità, ma in Alpi Armin Linke mostra come anche le nostre montagne siano sottoposte ad un’artificialità simile a Dubai, specie in occasione di eventi tipo Davos.
Quanto agli architetti, sembra per paradosso che siano internazionalisti quando costruiscono a casa propria e localisti quando operano in casa altrui.