Lara Romeo, Revolart, 14 IX 2015.
“Conversion”, ovvero la tecnologia come religione.
Due artisti russi alla Biennale di Venezia presentano il nuovo culto contemporaneo
Venezia, 2015. 56esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale.
Dal 6 Maggio fino al 22 Novembre gli artisti russi Andrey Blokhin e Georgy Kuznetsov, che insieme formano il Recycle Group, hanno deciso di installare la loro mostra CONVERSION nella chiesa di Sant’Antonin [ore 10-18, chiuso il martedi]. Una chiesa modesta, piccola, spoglia, costruita nel VII secolo; chiusa per restauri nel 1983 e riaperta solo nel 2009.
Quasi invisibile, passa inosservata, e contrariamente a quanto possa sembrare, è ancora consacrata: le funzioni non vengono celebrate perché nei paraggi sono presenti chiese più importanti, e perché nell’epoca dello sviluppo tecnologico, la religione è sempre meno sentita.
La fede sta scemando.
Ma che cos’è che sta facendo diminuire i fedeli?
Qual è il nuovo culto dell’uomo contemporaneo?
E’ moderno, all’avanguardia, rapido, aggiornato, accessibile.
E invisibile, se non attraverso un piccolo schermo.
E’ il culto della tecnologia.
Generato (e non creato!) da Internet e la comparsa di nuove tipologie di dispositivi che hanno contribuito alla diffusione delle informazioni in tempo reale, e al continuo rinnovo delle notizie.
Il nuovo Dio consiste infatti nella summa di tutte le informazioni disponibili nello spazio virtuale.
E quest’ultimo è disponibile a chiunque.
La mostra si propone di paragonare la rivoluzione digitale al processo di cristianizzazione, le cui rispettive conoscenze sacre risiedono nello spazio virtuale per l’una, e nei cieli per l’altra; la rete globale come un rito di preghiera.
L’idea è quella di simulare il ritrovamento delle rovine di un santuario del XXI secolo: che cosa penseranno di noi gli uomini del 3000? Gli artisti fanno riferimento all’iconografia cristiana tridizionale, e attraverso sculture e bassorilievi, rivisitano le scene bibliche di maggiore rilevanza.
Appena si varca l’entrata della chiesa, la prima cosa che si vede è la familiare “f” dell’icona di Facebook, posta davanti all’altare quasi a ricordare una grande croce. L’icona come ce la ricordiamo dovrebbe esssere bianco su blu, che in tale contesto richiamerebbe i colori spesso utilizzati per rappresentare la Madonna, come rimando alla purezza e alla verginità. Ma questa f è verde scuro, e va al di là dall’essere solamente una semplice lettera dell’alfabeto, per incontrare le libere e molteplici interpretazioni date dall’approccio personale di ogni singolo visitatore.
Proprio di fronte all’abside si possono vedere neo-apostoli che parlano al telefono, ascoltano musica e usano tablets: essi sono gli attuali portatori della conoscenza divina, ovvero il flusso delle informazioni virtuali. In Search of the Web è un bassorilievo che rappresenta degli uomini che, con i loro dispositivi mobili, cercano di captare il segnale di un’antenna-ripetitore per accedere alla rete. Sarebbe più corretto parlare di adepti o fedeli, in quanto i protagonisti di questa scena incarnano atteggiamenti di adorazione e preghiera: c’è chi si inginocchia e chi congiunge le mani, ma tutti circondano la nuova figura sacra ringraziandola devotamente.
Alcune statue rappresentano delle figure umane a metà, a cui manca la parte superiore, come ceppi d’albero abbattuti. Ma al loro centro non si trovano i soliti cerchi. Non carne, od ossa: la loro spina dorsale è l’icona di un’app. Altre statue rappresentano sempre delle figure umane, ma in posa tipica da preghiera: inginocchiata, prostrata, o seduta a gambe incrociate, come nelle religioni orientali. Con un’app incisa nella pelle. Un marchio indelebile che caratterizza tutti i credenti.
I materiali utilizzati sono gomma, reticolati di plastica, polietilene e poliuretano. Materiali industriali e di uso comune. Saranno questi i resti che troveranno le generazioni future? Saranno questi i materiali che verranno considerati l’Arte delle generazioni passate, e verranno conservati per preservarne la memoria?
E’ invece in tronchi di legno fossile che sono incise le icone delle app utilizzate più frequentemente: YouTube, Whatsapp, Messenger, Twitter, Spotify. Le superfici sono lisce e levigate, tanto che sembrano tutte erose dal salso e dal tempo. Una, in particolare, riporta l’icona di Skype, che è ripetuta più volte e collegata in serie tra i vari blocchi: questo restituisce una sensazione di perenne e perpetua connessione. Sempre (e per sempre!) connessi.
La particolarità di questa mostra sta proprio nel fatto che sia ospitata in una chiesa consacrata: è chiaramente una critica e una provocazione. I due artisti hanno infatti insistito proprio perchè fosse esposta dentro ad una chiesa nonostante questa proposta fosse stata inizialmente rifiutata – perchè credevano che in una neutrale ed anonima stanza bianca non avrebbe avuto lo stesso effetto. Va riconosciuto che i materiali hanno il vantaggio di non intaccare minimamente la chiesa, in quanto tutte le installazioni sono montate su appalti edili facilmente rimovibili; inoltre, la rete di plastica che compone i bassorilievi ha la particolarità di essere semitrasparente, e l’effetto vedo-non vedo lascia trasparire alle sue spalle la chiesa vera e propria, che con i suoi materiali pregiati duraturi, è sopravvissuta fino a noi attraverso il Tempo e la Storia. Questa sovrapposizione vuol far riflettere sull’autenticità del culto: quello apparente e quello reale. A quale dei due ci si voglia riferire per i rispettivi giudizi, però, gli artisti lo lasciano decidere alla sensibilità di ciascun visitatore.