Marco Persico, Corriere della sera, 25 IX 2017
LA TESTIMONIANZA
Io, papà del baby calciatore, tra l’ansia e la voglia matta di aver messo al mondo un fenomeno
Avere un figlio di 9 anni che gioca in un grande club significa vivere una continua trance agonistica. Genitore e manager nella bolla del football giovanile.
«Papà, mi iscrivi a calcio?». All’epoca Giovanni aveva appena quattro anni. Io un passato da maniaco del pallone cresciuto a pane e Maradona all’ombra del San Paolo e un segreto inconfessabile (almeno a lui che oggi ha nove anni, da un paio sgambetta nel vivaio di una società professionistica milanese): quella prima e ultima palla toccata da difensore dei «pulcini Corrado Ferlaino» maldestramente trasformata in autogol, sotto gli occhi di mio padre che sedeva in tribuna. Una palombella che andò a scavalcare il portiere della mia squadra, decretando, sull’onda emotiva, la fine della mia avventura sul rettangolo verde.
Trent’anni dopo ero pronto a tutto pur di evitare al piccolo una delusione simile. Per depistarlo feci leva anche sul suo amichetto del cuore del tutto disinteressato al pallone: «Hai visto che Leo si è iscritto a nuoto?». Niente da fare: «Papà, io voglio fare calcio». Così ad attendermi, inesorabilmente, c’era un futuro da genitore geneticamente modificato, perché alla fine ti infili in quella specie di bolla traboccante anima e passione che è il calcio dei ragazzini. Un po’ allenatore, manager, nutrizionista, mental coach. Il tutto vissuto con l’ansia di chi non ha la minima idea di cosa sta facendo.
E il pericolo costante di perdere la bussola. Perché a bordo campo risuonano i «sei molle», «stai camminando», «vai a due all’ora», «tira fuori il carattere», «così non andiamo da nessuna parte». E ancora minacce, promesse. Parole abbaiate, ma sotto voce, spesso nell’intervallo delle partite, traboccanti di una rabbia che però si deve in qualche modo soffocare, perché guai ad intaccare la sacralità del dogma: «I bambini sono qui per divertirsi». E si deve sorridere, anche se in ballo c’è la maglia da titolare, la prima squadra o la panchina, la rivalità non dichiarata con gli altri papà, la convocazione al torneo blasonato e la voglia matta di aver messo al mondo un fenomeno. Un’eterna trance agonistica in cui i padri si ritrovano da soli. Per di più con l’etichetta degli invasati appiccicata addosso. E io quella, forse anche più impegnativa da reggere, di papà equilibrato e razionale.
Mi ricordo il primo torneo di Giovanni. Il mio debutto a bordo campo. Eravamo ancora lontani dagli attuali rombi, quadrati e giro palla da cantera. Lui finalmente indossava la «tuta da rappresentante», come la chiamava. Con sé aveva il suo talismano, la maglia «tarocca» di Cavani. Con tignosa attenzione avevo letto il regolamento delle competizioni della categoria, rassicurante nella sua lapidaria chiarezza: «Sono vietati i calci di rigore (…), pertanto non è possibile prevedere partite ad eliminazione diretta». A metà pomeriggio, invece, si preparava a battere il penalty l’ultimo compagno della squadra di Giovanni. Il tiro incerto e centrale che seguì consegnò, tra le lacrime dei nostri giocatorini, la finale per il primo posto agli avversari e al tripudio dei loro allenatori e genitori.
E pensare che quella sorta di decalogo montessoriano, con tanto di sacro sigillo della Figc, parlava anche di «giochi ludico-didattici» e di «principi psicopedagogici adeguati» all’età. Eppure quando provai ad avvicinarmi agli spogliatoi per consolare Giovanni mi trovai la strada sbarrata da quella che era una zona rossa in piena regola. Con tanto di transenne e steward a protezione dei bambini. Una specie di sospensione della patria potestà. Eppure c’è qualcosa di straordinario nell’avventura di quei ragazzini palla al piede e testa alta in mezzo al campo. Perché bambini e genitori hanno diritto di sognare in grande.