Francesco Lo Piccolo*, blog su HuffPost, 16 IV 2020
Tutto cambierà…per non cambiare nulla
In questi tempi di pandemia è utile ripensare a Erving Goffman (1922-1982) e alla sua definizione “un’istituzione è totale quando ha un potere particolarmente inglobante sull’individuo”. Quattro, in particolare, secondo lo studioso canadese, sono le caratteristiche di una istituzione totale, ovvero: 1) ogni attività si svolge nello stesso luogo e sotto la stessa autorità; 2) gli individui svolgono quotidianamente delle attività per gruppi numerosi, sotto la stretta sorveglianza da parte dello staff dell’istituzione; 3) vi è un sistema di regole ferree e ripetitive che scandiscono le varie attività e fanno scaturire così una standardizzazione dei comportamenti; 4) lo svolgimento di tali attività è diretto al perseguimento dello scopo ufficiale dell’istituzione.
Queste quattro caratteristiche sono descritte in una opera imponente che si intitola “Asylums” e che parla di prigioni e di ospedali psichiatrici e dunque parla di persone che vengono richiuse dentro spazi predefiniti nei quali sono costretti a vivere e dai quali non si può uscire. E dove viene innanzitutto spogliata ogni identità.
A partire da queste considerazioni, nel ripensare a questi spazi “concentrazionari”, le immagini che accompagnano questi concetti sono immagini di mura che chiudono e dividono e che infine proteggono una parte da un’altra parte. Mura concrete e ben visibili, ma anche mura ideologiche che separano “i salvati dai sommersi” (per usare una definizione di Primo Levi però riferita unicamente a coloro che sono dentro il sistema concentrazionario).
Mura ma anche maschere come quelle che venivano usate dai medici della peste, o mascherine come quelle che oggi indossano milioni di individui per salvarsi (o per salvare) dalla propagazione del covid-19. Mura e maschere come strumenti di protezione e sicurezza; mura e maschere come strumenti che “coprono” se stessi e gli altri dai rischi e dai pericoli.
E che “è giusto indossare anzi doveroso perché siamo sulla stessa barca”, una barca dove dall’oggi al domani la spoliazione di ogni identità, il controllo sociale e l’omologazione sono sorvegliati e conseguentemente garantiti da droni, elicotteri, forze di polizia, vicini di casa. Tutto legittimato come legittimate sono le istituzioni totali descritte da Goffman. In difesa, a protezione della vita che è la vita di tutti.
E qui viene normale chiedersi: questa è davvero la vita di tutti? E quel tutti è davvero così generalizzato, uniformato e uguale? E la barca è davvero la barca di tutti? E non c’è forse chi sta nella stiva e chi nella cabina posta sul ponte di comando?
Ho davanti a me le carte del mondo, quella di Mercatore (perfetta per i naviganti, imprecisa nelle proporzioni, poco realista e coloniale) e quella di Peters (con il Sud disegnato con la stessa importanza del Nord). E osservo le carte in riferimento alla popolazione e ai numeri relativi alla ricchezza. Riporto i dati del rapporto di Oxfam pubblicati il 19 gennaio di quest’anno: l’1% più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva a metà 2019 più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone.
Ribaltando la prospettiva, la quota di ricchezza della metà più povera dell’umanità – circa 3,8 miliardi di persone – non sfiorava nemmeno l’1%. Nel mondo poco più di 2 mila multimilionari (2.153 per essere precisi) detenevano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone, che corrispondono a oltre il 60% della popolazione globale.
Ma è utile in questo discorso tenere conto anche di altri dati. Come ad esempio che: 2,1 miliardi di persone (su 7 miliardi e mezzo) non possono accedere a fonti sicure di acqua potabile; 2,3 miliardi di persone non possono usufruire di servizi igienico sanitari; 842 mila persone muoiono per aver contratto malattie attraverso l’acqua contaminata; quasi mille bambini al giorno al di sotto dei 5 anni muoiono a causa di diarrea per aver consumato acqua sporca; solo di malaria ogni anno muoiono circa 1,5 milioni di persone (il 90% bambini); in Africa si concentra il 16 percento della popolazione mondiale ma solo l’1 percento della sua spesa sanitaria.
Tanto per capirci, in Africa ci sono 2 medici per 10mila persone, mentre in Italia ce ne sono 41, con un divario di 18,1 anni nell’aspettativa di vita con i paesi ricchi dell’Occidente. Per evitare generalizzazioni (il solito errore) è comunque bene dire che anche in Africa ci sono aree ricche e aree povere.
Ovviamente, parlare di vita significa anche parlare di morti per guerre: decine di focolai con centinaia, migliaia, milioni di vittime, soldati e civili. Due milioni le vittime di guerra dal 78 in Afganistan, altri due milioni in Iraq, mezzo milione in Siria in meno di 10 anni, altro mezzo milione in Somalia, cento mila nello Yemen… Una lista senza fine e alla quale possono essere aggiunti la crisi libica, il conflitto israelo-palestinese, quello tra turchi e curdi, quello in Messico per il controllo della droga…
Tutte uguali alle popolazioni del ricco occidente queste che popolano i paesi del Sud del mondo?
E’ anche questo, dunque, il nostro mondo. O meglio, questo è l’altro mondo che l’occidente non considera affatto o, per essere precisi, considera solo in termini di risorsa… come luogo dal quale estrarre i componenti per far funzionare computer e smartphone, come risorsa energetica per far viaggiare i propri aerei e le proprie auto, come area dove vendere le proprie armi, come pattumiera dei propri rifiuti.
E dove si muore ma non si fa notizia, perché tutto quello che avviene in quei luoghi viene visto soltanto in Tv, come una fiction senza essere una fiction, “riduzione televisiva” a quello che fanno le grandi potenze, ai numeri, assieme ai dati sull’occupazione, ai delitti, agli immigrati e così via. Tutto ai minimi termini… anche la guerra, in diretta, ma contraffatta, al pari di un videogioco. Una grande messa in scena, tra una pubblicità e l’altra, tra un dibattito e l’altro, tra calamità naturali e aiuti umanitari… Tutto medializzato e tutto normalizzato fino al punto da non saper più cogliere la sofferenza patita da chi viene identificato con l’altro.
In definitiva è quello che avviene oggi nell’emergenza da Coronavirus con la conta dei morti e con l’aggiornamento minuto per minuto. Senza con questo sminuire sofferenze, dolore e pericolo reale di contagio, ecco in scena la quotidiana dose di raccapriccio e buonismo per rafforzare la coesione interna e normalizzare la vita, questa vita che la morte non può più sopportare. A meno che non sia quella degli altri… il più lontano possibile da noi. Maschera e guanti e distanziamento sociale unica ricetta.
Tutti costretti a stare a casa, obbligati ad uscire solo per acquisti alimentari e costretti a mostrare a polizia, carabinieri o esercito il modello di autocertificazione. Modello somigliante al massimo grado con la domandina che viene imposta ai detenuti per poter avere un libro o un nuovo spazzolino da denti, oppure solo per poter parlare con un educatore, con il direttore o con il cappellano del carcere. Non più cittadini e non più persona con diritti, ma sudditi con doveri e obblighi di obbedienza.
A rischio di contagio e di morte ma esclusi dal diritto della vita e della salute da chi li vuole incarcerati (potere esecutivo, giudiziario, legislativo, mediatico). Ignorati, cancellati, infantilizzati e privati della capacità e del diritto a decidere per essere addestrati all’obbedienza cieca, senza nessun coinvolgimento attivo.
Da una parte l’ordine di chi comanda e all’altra parte l’obbligo di chi deve obbedire. Succede da sempre nelle carceri, succede ora nelle città colpite dalla pandemia. Addio buon senso, ragione, riflessioni del tipo: in spazi aperti, su una spiaggia da soli (anche con la mascherina) si corrono meno rischi che restare a casa o all’interno di un ufficio o in una fabbrica con tante altre persone costrette a respirare la stessa aria per ore e ore. Individui oggetto, meri strumenti della politica e dell’economia, mezzi e strumenti non più fine.
E in tutto questo è più che mai funzionale la fabbrica dei media. Ore e ore di trasmissioni Tv a parlare di guerra e di un nemico da battere, tutti in mascherina per coprire anche la ragione e per mostrare il solito spettacolo con l’inviato davanti all’ospedale per intervistare il primario sul numero dei morti e sulle cure avviate. In Italia ci sono duecento carceri, nelle carceri ci sono poco meno (adesso) di 60 mila persone: i giornali in maschera lì non ci vanno a chiedere ai direttori qual è la situazione.
E naturalmente non interrogano. Ovviamente nessun confronto con i morti sul lavoro (un migliaio nel 2019) o con le vittime dell’Ilva (oltre 21 mila nuovi casi di tumore registrati dalla Asl di Taranto in sei anni fra il 2006 e il 2012).
Un fatto è importante dire adesso: la pandemia Covid-19 sarebbe potuta essere controllata se negli anni non ci fosse stato un incredibile smantellamento del sistema sanitario pubblico a favore del privato e se ci fosse stato uno screening sistematico delle persone infette sin dall’inizio dei primi casi. Il profitto prima di tutto, le deforestazioni e le trasformazioni in Cina di intere aree periferiche in capitali industriali, questo ha infine permesso e favorito il salto di specie del virus dal pipistrello all’uomo.
Gianni Tamino, docente emerito di Biologia generale all’Università di Padova, già deputato ed europarlamentare e oggi membro dei Comitati Scientifici dell’Associazione medici per l’ambiente – ISDE – l’ha spiegato bene: “I cambiamenti climatici e la riduzione delle foreste con l’alterazione degli habitat di molte specie animali mettono sempre più facilmente a contatto animali selvatici con esseri umani, un contatto ancora più stretto quando questi animali vengono catturati per essere venduti in mercati affollati, rendendo più facile il salto di specie per i loro patogeni (si pensi al virus di ebola).
Inoltre gli allevamenti, in particolare di polli e suini, con concentrazioni di molti capi in spazi ridotti, alimentati con mangimi contenenti antibiotici, favoriscono una forte pressione selettiva sui loro virus e batteri, che mutano velocemente verso ceppi e tipi più aggressivi anche verso la specie umana, come è avvenuto per l’influenza aviaria e suina. Un ulteriore contributo alla diffusione di agenti patogeni è dato poi dalla globalizzazione, che, grazie al frenetico trasferimento in ogni parte del pianeta di persone e merci, favorisce il passaggio da epidemie a pandemie”.
Ancora Tamino: “La pandemia del virus Covid-19 era prevedibile e ampiamente prevista, se non proprio nei termini e nei tempi precisi, sicuramente come evento probabile. Già nel 1972, nel rapporto del MIT per il Club di Roma, dal titolo “I limiti dello sviluppo” si affermava che se la popolazione mondiale continuava a crescere al ritmo di quegli anni, la crescente richiesta di alimenti avrebbe impoverito la fertilità dei suoli, la crescente produzione di merci avrebbe fatto crescere l’inquinamento dell’ambiente, l’impoverimento delle riserve di risorse naturali (acqua, foreste, minerali, fonti di energia) avrebbe provocato conflitti per la loro conquista; malattie, epidemie, fame, conflitti avrebbero frenato la crescita della popolazione”.
Ma al Panopticon mondiale questo non interessava e non interessa. Per il profitto e a favore del profitto di una parte dell’Occidente, la cosa importante resta una: regolare il comportamento umano e ad organizzarlo. In questa ottica ecco agire insieme morale, religione, diritto, costumi, educazione, rappresentazioni collettive, valori, opinione pubblica, ovvero l’esercito ideologico da sempre al lavoro con tutti quei dispositivi che producono e controllano costumi, abitudini e pratiche produttive sanzionando e/o prescrivendo i comportamenti devianti e/o normali.
Come andrà a finire tutto ciò è già ben evidente in questi giorni: fase 2, fase 3, la stretta si rallenterà, tutti attrezzati con guanti e mascherine faremo ripartire il mondo dei soldi e il finanzcapitalismo ben descritto da Gallino. E la salute e i morti torneranno ad essere gestibili e fonte di profitto. L’anormalità del lockdown, sarà sconfitta e si tornerà alla normalità che è la prima causa dell’attuale pandemia.
E si tornerà nei centri dello shopping per la nuova camicia o il nuovo pantalone, pur avendo magari l’armadio pieno, ma costretti al nuovo acquisto dalla moda, da quel meccanismo dell’industria tessile per vendere quei nuovi prodotti in sostituzione dei “vecchi”. Tutto cambierà per non cambiare nulla o meglio per accentuare le divisioni di classe, più disuguali di prima, di qua i senza febbre e di là i possibili untori, di qua i salvati e di là i sommersi, di qua i noi e di là gli altri. Comunque tutti controllati e tracciati per la “nostra” sicurezza, per una vita che non è la nostra ma quella di questo status quo.
Illusi di aver battuto il virus e la morte (senza saper più accettare che sia parte della vita), affidati ai nuovi stregoni, si continuerà (con l’appoggio di media e penale) a non vedere il concentrazionario che ritorna.
Quanto al futuro, sempre più prossimo e sempre più senza ritorno, per avere conoscenze e informazioni dirette basterà seguire il “Science and Security Board” del “Bulletin of the Atomic Scientists” che ogni anno ci aggiorna con il “Domsday clock” sullo stato dell’arte. Oppure basterà rileggere Philip Dick, Azimov, P.D. James, o rivedersi “La notte dei morti viventi” di G. Romero.
* giornalista, direttore di “Voci di dentro”.