Fulvio Abbate, Linkiesta.it, 12 X 2016
CAMILLERI SECONDO ABBATE: LA SICILIA COME MACCHIETTA
Camilleri, sia detto in termini di mera constatazione, è un succedaneo di Sciascia. Per essere più esatti uno Sciascia “Hag”. Uno Sciascia depotenziato, senza gli acidi e il vero fiele di Trinacria.
Tutto ciò che nello scrittore di “Todo modo” e di “Nero su nero” lasciava intravedere lo spettacolo mortuario delle abissali palermitane Catacombe dei Cappuccini, le stesse che aprono “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi come necrologio letterario sulla sostanza dell’anima profonda indigena e della mafia, in Camilleri diventa invece quadruccio farsesco da tinello o, perché no, da tavernetta, piazzato accanto alla bottiglia di Marsala, alla collezione di “Storia Illustrata” e al posacenere pubblicitario rubato alle terme di Sciacca, come certe decorazioni di carretto siciliano che a Taormina fanno la felicità del tedesco di passaggio: pupi e compari.
In questo senso, il commissario Montalbano è musica letteraria leggera, incapace di giungere alle vette wagneriane del già citato racalmutese. Vagner in luogo di Wagner, Vagner così come in Sicilia talvolta viene interpretato l’autore della “Cavalcata delle Valchirie”.
Diceva uno scrittore francese tra i più grandi del secolo trascorso, Louis-Ferdnand Céline, che il dialetto “nasce dall’odio” (lui in verità si riferiva agli argot, ovvero alle forme gergali, da quello dei macellai a quello dei muratori o degli scaricatori delle antiche Halles parigine), e lo stesso si può dire del dialetto siciliano, nel quale c’è sempre modo di intravedere unghie e pugnali, sputi e sangue; al contrario, il dialetto di Camilleri è un dialetto da pro-loco, da ente provinciale del turismo, un dialetto, l’ho già detto, depotenziato, buono anche per il cabaret “Madison” di piazza Don Bosco, dove le signore si brillano tra visoni e Chivas Regal, e tra il primo e il secondo tempo ecco veder brillare fuori dalle tasche i Dupont e le Muratti. Il resto dello scenario è a una fila di Porsche parcheggiate da uomini che hanno cura di tenere il maglione annodato sulle spalle.
Mi direte: come è stato allora possibile il suo successo? Come è possibile che fino a un mese fa fosse ancora tra i più letti d’Italia col suo ultimo libro (L’altro capo del filo) e sia già pronto, per non perder l’abitudine, con una nuova formidabile uscita (La cappella di famiglia e altre storia di Vigàta)?
Semplice, Camilleri è il prodotto perfetto per restituire una Sicilia di genere, lompo in luogo del caviale, un’isola da sarde a beccafico, degna di colui che anni addietro, sapendomi palermitano e già impegnato nell’avventura straordinaria del quotidiano “L’Ora”, così chiese: “Dottore Abbate, ma se vengo a Palermo, lei me lo fa conoscere un mafioso?” Bizzarrie della storia e della banalità. Anni dopo seppi che queste identiche parole erano state spese da Gianni Agnelli verso un direttore de “La Stampa” mio conterraneo. Perfino la mafia nei suoi libri diventa un souvenir, come il carrettino o la coppola o il grembiule con l’effigie di Brando nei panni del Padrino. Souvenir de Sicile.