Un’agenzia specializzata ci ha di recente chiesto se nell’articolo “L’ultimo libro di Pomicino”, ripreso dalla nostra Rassegna Stampa, potevamo anonimizzare i dati di un suo cliente. Richiesta motivata dal fatto che l’articolo non rispecchiava più l’attuale identità del Sig. Carlo Sama il quale, non volendo rimanere legato a un certo tipo di informazioni non più pertinenti al suo attuale percorso di vita, rivendicava l’oblio.
Nonostante non ne avessimo alcun obbligo di legge, nel rispetto della manifestata volontà all’oblio abbiamo spontaneamente rimosso addirittura l’intero articolo. Senonchè, poco dopo abbiamo appreso, dal pezzo che segue, che quasi contestualmente l’istante aveva rilasciato al Corriere della Sera una lunga e dettagliata intervista sugli stessi fatti dell’articolo. Ci siamo così chiesti come mai l’Agenzia si fosse preoccupata del poco riportato sul nostro sito, che al massimo può avere una mezza dozzina di infedeli seguaci, e non invece del molto raccontato alle migliaia di affezionati lettori del più diffuso quotidiano nazionale. E la risposta non può che essere una delle due seguenti:
O l’Agenzia specializzata ha agito senza mandato (la prossima volta, perciò, ne chiederemo copia) oppure si vuole l’oblio della vicenda solo per come vista dagli altri ma non anche dal Sig. Sama a cui viene invece riservata l’ampia platea di lettori del Corriere della sera. E in quest’ultima eventualità – precisando che non nutriamo alcun interesse né per l’una né per qualsivoglia altra contraria versione, compresa ovviamente quella del libro di Pomicino – ci sentiamo di dire al diretto interessato, affettuosamente, che forse sta perdendo solo tempo.
Cosa vuole che sia, caro Sig. Sama, una tesi anziché un’altra, quand’anche fosse quella portata – aggiungiamo, a rischio di apparire eretici – da un qualche documento giudiziario? In un recente libro di successo uno storico israeliano ha ben descritto il fenomeno per cui in ogni uomo c’è un “sé esperienziale” e un “sé narrante” ed è quest’ultimo ad essere costantemente impegnato a tessere storie usando le esperienze come materiale grezzo per le sue trame, poco importa se – in obbedienza a necessità non sempre nobili – piene di lacune o di bugie. E ciò, a nostro avviso, vale sia per chi viene incolpato che per il PM che disegna l’accusa, l’avvocato che prepara le difese, il giudice che scrive la sentenza, il giornalista che racconta il processo e chi in qualche modo userà il tutto per poi scriverci un libro.
Lasci perdere, Sig. Sama. Lasci perdere tutti, compresi avvocati e agenzie che in buona fede promettono il nirvana a pagamento. Tanto le sentenze, e ancor meno le opinioni sui libri o sui giornali, non fanno la storia vera e nessuno le studierà mai nemmeno a scuola. E anche se così fosse – riprendiamo ancora l’autorevole studioso di poc’anzi – fra qualche anno la maggior parte di ciò che oggi vi si insegna sarà del tutto irrilevante.
E se ciò non dovesse ancora risultare rasserenante, la prossima volta Le dirò di un facile esercizio zen che ho personalmente trovato assai efficace. Un caro saluto e auguri. (G. C.)
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Cristiano Mais, La voce delle voci, 19 VIII 2018
RAOUL GARDINI / PERCHE’ DOVEVA MORIRE
Dalle sue ricche piantagioni in Paraguay, dopo un quarto di secolo racconta le sua verità sulla madre di tutte le tangenti, Enimont, Carlo Sama, che sposò una delle figlie, Alessandra, dell’ex imperatore del grano, Serafino Ferruzzi.
Una delle pagine più sconvolgenti di Tangentopoli, per la morte – “suicidio?” – di Raul Gardini, patròn del gruppo e marito di un’altra rampolla di casa Ferruzzi, Idina. La mattina stessa che avrebbe dovuto verbalizzare davanti al pm di ferro, Antonio Di Pietro, preferì spararsi una rivoltellata in testa.
Un po’ come fece il capo Eni Gabriele Cagliari, che scelse un sacchetto intorno alla testa piuttosto che affrontare la gogna giudiziaria.
Un paginone del Corriere della Sera griffato Stefano Lorenzetto, torna su quei buchi neri, su quelle vicende che ancora ammorbano la storia italiana e rappresentano un’autentica macchia nella giustizia (sic) di casa nostra.
Titolo del pezzo: “Io, mio cognato Gardini e il colpo di pistola 25 anni fa”.
Scrive Lorenzetto: “Il protagonista del processo Enimont, inchiodato dal pm Antonio Di Pietro per aver pagato ‘la madre di tutte le tangenti’ e riabilitato di recente dal tribunale di sorveglianza di Bologna, vive tra Montecarlo e il Sudamerica”. Beato lui.
Novello Hemingway, narra Sama: “Nel bosco mi sono costruito una casa di legno (progettino firmato Fuksas?, ndr) su un albero a 20 metri da terra, ma confesso che non ci ho ancora dormito… Ho paura dei giaguari: quelli si arrampicano”.
E quelli di Tangentopoli gli facevano il solletico?
Da una rimembranza all’altra. “Avevamo il monopolio mondiale del propilene. Ma bisognava investire centinaia di miliardi in ricerca. La Shell era pronta. Avremmo riportato a casa i pozzi petroliferi in Adriatico. E l’Edison. L’advisor dell’operazione era Romano Prodi, affiancato da Claudio Costamagna, attuale presidente della Cassa Depositi e Prestiti”. Arieccoli.
“Perchè a 60 anni Gardini si uccise?”, chiede Lorenzetto.
“Non certo per disonore: non aveva fatto nulla. Temeva di finire come Gabriele Cagliari. 134 giorni nel canile. Quando il presidente dell’Eni si suicidò in cella, Raul mi telefonò: ‘E’ morto da eroe’. Pensava solo a quello, all’arresto. Di Pietro lo teneva sulla graticola. Non si lavora una vita per finire in ginocchio da chi ti accusa”.
Nel libro “Corruzione ad Alta Velocità” firmato vent’anni fa da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, si parla ovviamente della maxi tangente Enimont e dei protagonisti dell’affaire.
Ecco un paio di stralci.
Il primo fa riferimento ad una sigla acchiappa lavori & tangenti, TPL, un vero e proprio scrigno. “In questo intreccio di mazzette resta centrale la figura di Francesco Pacini Battaglia, il quale avrebbe reso possibile la costituzione di fondi neri societari all’estero, nel tentativo di rendere invisibili i beneficiari di quel denaro. Tutto questo – lo ricordiamo – lo scopriranno i magistrati di Perugia”.
Ecco l’interrogativo clou: “Ma perchè, pur incappando, cinque anni prima, negli affari sporchi della Tpl, Antonio Di Pietro, e con lui Gherado Colombo, non erano riusciti a venire a capo di nulla? Eppure sempre nel 1993, interrogato dai magistrati del pool di Milano, il finanziere Sergio Cragnotti, all’epoca amministratore delegato di Enimont e buon amico di Raul Gardini, aveva raccontato di aver ricevuto dalla Tpl 5 miliardi di lire, soldi poi bonificati da Pacini Battaglia. 2 miliardi – aveva riferito Cragnotti – li aveva tenuti per sé, 2 erano finiti a Gardini e l’ultimo a Necci (allora presidente dell’Enimont) e Pacini Battaglia”.
Passiamo al secondo stralcio con le parole di Imposimato, un vero e propro j’accuse: “Sono andato a rileggere l’elenco dei nomi dei principali imputati del processo Enimont: non nascondo che un brivido mi ha attraversato la schiena. Alcuni di quegli imputati come Gabriele Cagliari furono letteralmente torturati psicologicamente e tenuti in carcere fino alla morte. Per sucidio. Altri, come Raul Gardini, furono minacciati senza pietà di arresto fino alla morte. Per suicido. Altri ancora – è il caso di Cragnotti e Pacini Battaglia – il carcere lo hanno visto appena (il primo) o, almeno a Milano, non l’hanno mai visto (il secondo)”.
E’ la giustizia, bellezze.
E non ha caso mai da aggiungere qualcosa di più corposo, da Montecarlo o dalla capannuccia in Paraguay, l’altro uomo (oltre Francesco Pacini Battaglia) di tutti i segreti Enimont, Carlo Sama?