Gian Carlo Caselli, Repubblica, 17 VI 2018
Le verità negate del processo a Giulio Andreotti
Insieme, Guido Lo Forte (collega della Procura di Palermo) ed io abbiamo scritto per Laterza un volumetto di 122 pagine intitolato “La verità sul processo Andreotti”.
Una tempesta di bufale (oggi “fake news”) ha fatto credere a moltissimi cittadini italiani – in buona fede ma ingannati – che l’imputato Giulio Andreotti sia stato assolto. Di più: che sia stato perseguitato e costretto, seppur innocente, a subire una decina d’anni di calvario ad opera di una perversa magistratura “giustizialista” annidata nella procura di Palermo. Falso!
La Corte d’appello (con sentenza poi definitivamente confermata in Cassazione) ha decretato “non doversi procedere in ordine al reato di associazione a delinquere [con Cosa nostra] commesso fino alla primavera del 1980”. Reato commesso! Prescritto, ma commesso! Altro che assoluzione! Assolto per aver commesso il reato è un oltraggio alla logica e al buon senso. Un ossimoro da vertigine. Tanto più se la commissione del reato è suffragata da una montagna di prove relative a fatti assai gravi, in particolare due incontri dell’imputato Andreotti con il boss dei boss di allora (Stefano Bontate) riguardanti l’omicidio di Piersanti Mattarella, l’onestissimo presidente della regione Sicilia impegnato in un’opera di moralizzazione che l’aveva messo in rotta di collisione con i criminali di Cosa nostra. Ma perché tanta pervicace ostinata, apparentemente assurda, negazione della verità del processo Andreotti? L’uomo politico italiano (sette volte premier e oltre 10 volte ministro) più potente dal dopoguerra al sequestro Moro? Perché il processo ha affrontato e cercato di decifrare i nodi del patto di scambio politico-mafioso, dei rapporti torbidi tra mafia, politica, imprenditoria e massoneria. Perché esso si inscrive in una cornice più ampia, quella della strategia complessiva di Cosa nostra, che si traduce in una politica di “relazioni esterne” con la società e lo stato.
In altre parole, l’obiettivo di quella negazione non è solo il processo in sé. In filigrana si percepisce facilmente un problema, ben più rilevante, di democrazia. Un problema che ci interpella su come (almeno in un certo periodo e almeno in parte) si sia formato il consenso nel nostro Paese. Dunque, negare la verità del processo equivale a cancellare i gravissimi fatti su cui esso si regge. Ed è come svuotare di significato negativo i rapporti tra mafia e politica, determinando in sostanza una loro legittimazione: non solo per il passato, ma anche per il presente e per il futuro.
In altre parole, negando la verità del processo Andreotti si compie un’operazione perfettamente funzionale a quella robusta corrente di pensiero, molto diffusa nel nostro paese, che possiamo chiamare “negazionismo/riduzionismo” dei rapporti mafia-politica.
Che si vorrebbero ridurre a folklore, roba di poche mele marce, da circoscrivere nell’ambito localistico di alcuni appalti taroccati. Mentre invece si tratta di questioni con un preciso respiro nazionale. La lettura degli atti e delle sentenze del processo Andreotti (come pure del processo dell’Utri e del processo trattativa stato-mafia recentemente conclusosi con la lettura in primo grado del dispositivo di condanna) non sancisce affatto la cronaca di una modesta e arretrata realtà periferica Sancisce i tempi – appunto – della storia del Paese. Per cui le vicende processuali di fatto finiscono per travalicare il perimetro del giudizio sulle responsabilità penali (necessariamente personali e ancorate a fattispecie circoscritte), per delineare una vicenda storica che con orribili cadenze di morte assume i connotati di una tragedia nazionale incombente, quasi destinata a ripetersi ciclicamente.
Il negazionismo/riduzionismo di quello che Dalla Chiesa chiamava il “polipartito della mafia”, per indicare la compenetrazione illecita tra Cosa nostra e alcuni settori del potere legale, rappresenta una dolosa perdita della memoria che sfocia in colpevole amnesia. Una specie di rottura della continuità di quel senso etico che solo può arginare il ripetersi di certi fatti.
A chi giova tutto questo? La risposta è nelle parole di un giornalista inglese, David Lane, che a proposito del processo Andreotti ha scritto: “i politici e i media hanno raccontato un’altra storia , come se la suprema corte avesse detto che [Andreotti] era innocente”. Un fatto che ha inciso ”sulla determinazione nella lotta al crimine…..un messaggio chiaro che piace ai mafiosi”. E certamente anche ai loro complici!