Antonio Ferrari, Corriere della sera, 22 IX 2017
IN LIBRERIA PER CHIARELETTERE
«Il segreto» di Antonio Ferrari sul caso Moro: la postfazione.
Perché il romanzo è uscito trentacinque anni dopo essere stato scritto.
La telefonata arrivò a metà pomeriggio di una calda giornata di inizio luglio del 1981. «Ciao Ferrari, sono Salvatore Di Paola. Ti spiace fare un salto nel mio ufficio? Ti devo parlare con urgenza.» Guardai, sorpreso, i miei due colleghi inviati, Nicola D’Amico e Fabio Felicetti. Insieme condividevamo l’onore di occupare l’ufficio che fu di Dino Buzzati, al pianterreno del «Corriere della Sera», in via Solferino, dove forse nacque un suo capolavoro, Il deserto dei Tartari. Libro straordinario e fenomenale metafora sui tempi lunghi e le attese infinite che logoravano la nostra impazienza e condizionavano – noi pensavamo – la vita e la salute del giornale. «Chissà cosa vorrà l’azienda. Vado e poi vi racconto.» Salutai i colleghi, mi infilai la giacca estiva e salii le scale.
Di Paola, con il quale ero da tempo in confidenza, era un dirigente curioso, che amava il «Corriere» e non pensava soltanto ai lauti compensi della pletora di super manager dei nostri giorni. Era il numero tre del gruppo editoriale, ma praticamente era rimasto il più alto in grado, visto che l’editore, Angelo Rizzoli, e il direttore generale, Bruno Tassan Din, erano stati di fatto esautorati dopo l’esplosione dello scandalo P2.
Mi aspettava sulla porta del suo ufficio. «Vieni, Antonio, siediti. Devo dirti subito una cosa: siamo nella merda.» Lo disse senza preamboli, con brutale franchezza, strappandomi un sorriso di piena condivisione.
«Lo scandalo della P2 è devastante. Abbiamo bisogno di dare alla gente, ai nostri lettori, inequivocabili segnali di pulizia. Tu hai coraggio, ti occupi di terrorismo. Hai rischiato la pelle. Vivi con la scorta. Ecco, dovresti scrivere un saggio su questi anni devastanti».
A volte, forse per temporanea pigrizia mentale, vengo travolto dal desiderio di rifiutare sempre e comunque, anche se caratterialmente sono l’esatto contrario. «No, Salvatore. Non me la sento. Non sono pronto. È una responsabilità che va oltre le mie forze».
«Antonio, se ho pensato di chiamarti è perché so quanto ami e quanto sei legato al nostro “Corriere della Sera”. Il “Corriere”, adesso, ha bisogno di te… Non cercare scuse. Fatti venire un’idea».
Per prendere tempo, risposi: «Ci penso qualche giorno». Di Paola, determinatissimo: «Qualche giorno? Non hai capito. Tu andrai a firmare il contratto in Rizzoli domattina. Scrivi quello che vuoi».
Alla fine, lo so, la fantasia e il gusto del rischio mi hanno sempre soccorso. Anzi, quando mi lanciano il guanto della sfida, non riesco a sottrarmi.
Guardai Salvatore Di Paola. «Quello che posso fare è un romanzo, dove racconterei tutto ciò che non ho potuto scrivere perché non ne ho le prove assolute».
«Perfetto. Non voglio neppure conoscere i dettagli».
«Fermati, Salvatore. Mi devi ascoltare. Racconterò alcuni segreti che si nascondono dietro l’assassinio di un leader politico. Immagini già chi è. Non farò nomi, neppure di lui. Altererò i tempi, il luogo della strage, le decisioni delle Brigate rosse. Non è pura fantasia: intreccerò alcune confidenze che ho ricevuto da amici magistrati, preziose notizie ignorate dai giornali e indiscrezioni davvero piccanti, con una trama parallela. Ti avviso che chi leggerà capirà tutto. Te la senti? Ve la sentite? Sei sicuro?».
«Te l’ho detto e te lo ripeto. Carta bianca. Ti prendo l’appuntamento per domattina».
Credo che qualsiasi autore sarebbe stato felice di tanta generosità e di tanta fiducia. Impiegai mezz’ora per illustrare il progetto al dirigente della Rizzoli Libri, che si chiamava Piero Gelli (un caso di imbarazzante e sofferta omonimia). Firmai il contratto, che prevedeva la consegna del testo entro sei mesi. Tre giorni dopo ricevetti l’anticipo e cominciai a lavorare per rispettare i tempi. Sei mesi più tardi: consegna del libro e un sudario di silenzio. Silenzio di tomba dalla casa editrice. Nessuno chiamava. Sergio Pautasso, il responsabile della narrativa, taceva. Quando parlavo con il suo ufficio, rispondevano che si stava valutando. Ma valutando cosa? Eppure continuavo a essere ingenuamente ottimista.
Alla fine quel romanzo, che ha più di trentacinque anni, non è mai stato pubblicato, come avevano previsto gli amici ai quali l’avevo fatto leggere. Persone di cui mi fidavo, e che erano state generose: alcune di informazioni davvero scottanti, altre di preziosi consigli. «Antonio – mi dissero –, ci vogliono molto coraggio, una dose smisurata di anticonformismo e la determinazione di colpire i vari poteri per pubblicare questo libro».
Eccomi qui, trentacinque anni dopo, con i capelli bianchi ma l’intatto desiderio di condividere con i lettori (in primo luogo i giovani, che di quegli anni sanno poco o niente, ma anche i «diversamente giovani», che invece ricordano quasi tutto) una storia che oggi non fa più scandalo, come la nuova Commissione Moro, voluta da Matteo Renzi, sta ricostruendo tra mille difficoltà. La storia che non si poteva scrivere, oggi, è persino meno traumatica di quanto sta emergendo dai lavori della commissione parlamentare. Il delitto Moro fu una grande porcheria internazionale.
Devo fare un passo indietro. Anzi ne devo fare due. Il primo passo riporta all’aprile del 1979, quando il direttore del «Corriere della Sera», Franco Di Bella, mi chiese di partire subito per Padova, dove mi avrebbero poi raggiunto i colleghi Giancarlo Pertegato e Walter Tobagi. C’era stata una serie di clamorosi arresti nel mondo dell’Autonomia operaia organizzata, a cominciare dalla quasi totalità dei docenti della facoltà di Scienze politiche, a partire dal barone Toni Negri. Erano stati scoperti legami con le Brigate rosse, e si sospettavano responsabilità dirette per il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, avvenuto l’anno prima.
Il 28 aprile, a oltre venti giorni dalla retata, il sostituto procuratore della Repubblica Pietro Calogero mi ricevette, assieme ad altri colleghi. Fece il punto sull’inchiesta. Spiegò le connessioni che erano state scoperte a Parigi, presso l’istituto di ricerca Hyperion. Ci confidò che i servizi segreti francesi avevano collaborato fruttuosamente all’indagine, anche se avevano fatto sapere che la collaborazione doveva ritenersi sospesa, perché gravemente compromessa. Calogero mi guardò dritto negli occhi: «Ferrari, purtroppo il suo giornale, il “Corriere della Sera”, ci ha tradito».
Mi sembrava un’accusa infamante, incomprensibile e profondamente ingiusta. Ma prima che potessi esternare la mia reazione di corrierista doc, il giudice precisò: «Non lei, Ferrari, naturalmente. Ha letto la prima pagina del “Corriere” di quattro giorni fa? La rilegga, e ricordi quanto le ho detto».
Rammentavo il titolo, clamoroso, Secondo i servizi segreti era a Parigi il quartier generale delle Brigate rosse, e l’articolo. Ricordavo che la rivelazione dell’«uomo dei servizi» era stata raccolta da un collega che stimavo e stimo. Mi chiesi, in pochi secondi, che cosa avrei fatto io se avessi avuto quella notizia, quello scoop.
«Capisco il suo turbamento» mi disse Calogero. «Apprezzo sempre il lavoro di voi giornalisti. Ma sappiate che anche voi potete essere strumenti inconsapevoli di giochi orrendi. Se foste “consapevoli”, sarebbe davvero una tragedia per la libertà di questo paese».
Quella conversazione si sedimentò nella mia mente, ed è logico che, da quel giorno, cercai di ragionare molto più attentamente su tutto ciò che accadeva, anche su dettagli che parevano marginali. Per esempio fui molto colpito da una notizia. La scarcerazione e la scomparsa di un ricco americano, che era stato arrestato a Bologna per traffico di droga nel 1975, e che era tornato misteriosamente in libertà. In carcere si era infiltrato nelle Br e, come poi si seppe, era un uomo legato alla Cia. Si chiamava Ronald Hadley Stark. Anni dopo, nel 1985, venni a sapere anche che Stark era morto nelle Antille, in circostanze davvero particolari.
È chiaro che molte fiaccole si erano accese nella mia mente.
All’inizio del 1981, un collega de «L’Espresso» che stimavo moltissimo, Franco Giustolisi, compagno di tante missioni giornalistiche in giro per l’Italia, rientrando a Milano da Padova mi fece una strana confidenza. «Hai fegato, Antonio. Ma attento. Tu scrivi spesso che la loggia P2 si staglia dietro molte storie di terrorismo. Ho sentito che il tuo giornale non ne è estraneo».
Ricordo che reagii con insofferenza. «Anche tu, Franco! Ce l’avete proprio tutti con il “Corriere”. Non crederò mai a una cosa del genere.» Giustolisi mi sorrise, enigmatico. Cambiammo discorso.
La sera del 20 maggio 1981 ero al giornale. Credo che aspettassi due amici della redazione per un pokerino notturno. Chiacchieravamo di calcio quando, in sala Albertini, entrò un fattorino. Aveva in mano un telex. Il capo del servizio politico sbiancò. «L’elenco! Arriva l’elenco della P2.» Pokerino svanito. Tutti in fila davanti al telex, mentre la macchina vomitava, con il suo ritmo scandito da ogni lettera. Quasi mille nomi. Eravamo diventati tutti guardoni. «Hai visto chi c’è?» «Incredibile.» La lista era come una frustata. Non so quanti possano immaginare che cosa abbia voluto dire, per un amante del «Corriere», scoprire che i vertici del suo giornale erano dentro. Quasi tutti. Fu chiamato a casa il direttore, che arrivò trafelato. Vide l’elenco. Quattro parole: «Bene, si pubblichi tutto».
Al centralino del «Corriere» fioccavano telefonate notturne, nervosissime. Chi compilò quella pagina, che aveva un titolo imbarazzato, La presunta lista della Loggia P2, fece molto più degli straordinari. Molti volevano smentire subito: chi sdegnosamente, chi con rabbia, chi si affidava al giudizio della gente, chi minacciava querele. Ricordo due cose di quella notte di tregenda. La fatica dei colleghi della redazione per inserire le smentite, che suonavano ridicole, talvolta patetiche, talora grottesche. Poi l’autentica fitta di dolore per colleghi professionisti, compreso un giovanissimo talento che consideravo quasi un allievo, i quali erano andati a inginocchiarsi davanti a quel brutto ceffo di Licio Gelli. Un lercio burattinaio con disegni delinquenziali e golpisti, in Italia come in Argentina, in Uruguay e altrove. Non mi aveva sconvolto la presenza nella lista dei politici, dei generali, di tutti i capi dei servizi segreti, di alcuni magistrati. L’intero codazzo istituzionale di questo bellissimo ma slabbrato paese, abitato da troppi camerieri del potere. Lo davo per scontato. Fui fulminato dalla presenza del cantante Claudio Villa (sì, caro Reuccio, la vanità e la piaggeria fanno brutti scherzi!) e da quella del grande imitatore Alighiero Noschese, che conoscevo personalmente. Povero Alighiero, forse Gelli lo aveva utilizzato per telefonate ricattatorie. L’artista – dissero – non resse alla vergogna e si tolse la vita. Magari era vero che soffrisse di depressione.
Avendo poi seguito, a Torino, numerose udienze del processo alle Br, e avendo ammirato l’equilibrio del presidente della corte d’assise Guido Barbaro, un educato garantista che era il beniamino di noi inviati speciali, rimasi raggelato nel vedere anche il suo nome nella lista della P2. In quei momenti, mentre si spiegavano carriere fulminanti, tessevamo collegamenti inquietanti. Quella notte non dormii.
Meno di due mesi più tardi, quando fui chiamato da Salvatore Di Paola, ero ancora sotto choc, anche se nella vita ci si abitua a tutto. Il mio «Corriere» ferito era come una pugnalata alla schiena di ciascuno di noi.
Anni dopo, quando un collega tentò di far pubblicare sul nostro magazine un’intervista a Licio Gelli, mi consultai con il supervisore del settimanale, il mio migliore amico Francesco Cevasco, collega bravo e limpidissimo, che già aveva deciso di impedirne la pubblicazione senza consultare nessuno. In quanto delegato sindacale degli inviati speciali, convocai un’assemblea. «Se esce l’intervista, cari colleghi, propongo uno sciopero immediato, senza trattative e senza compromessi. A muso duro.» Ferruccio de Bortoli, all’epoca capo dell’Economia, si mise la giacca e, passando davanti all’ufficio di direzione, disse: «Se esce l’intervista, il giornale ve lo fate da soli». Il direttore Paolo Mieli fu d’accordo con noi. L’intervista non fu pubblicata.
Ma torniamo al libro. Il tempo passava e la Rizzoli non mi dava notizie. Si erano lamentati per la lunghezza del testo. Pautasso compiva salti mortali (o quasi) per spiegarmi che c’erano «cose che non andavano». Scuse pietose. Cambiò il direttore della divisione libri. Arrivò Valerio Riva, ruvido galantuomo. Mi fece una telefonata di fuoco: «Cazzo! La scuola di Parigi. Perché non esce questo libro?». Mi venne da ridere: «Non chiederlo a me». Riva si impegnò, ma poco dopo fu allontanato. Arrivò Oreste Del Buono, che mi disse chiaramente: «Non ce la sentiamo. Mi spiace». Decisi di ritirare il mio Il Segreto. Chiesi solo l’ultima rata dell’anticipo. Una causa? Al «Corriere della Sera» e alla casa editrice Rizzoli non l’avrei mai fatta. Provai allora con altri editori.
Devo però essere sincero. Da una parte mi urtava questa tremebonda cortina da prima Repubblica, dove certe libertà non erano previste; dall’altra comprendevo le resistenze, e in qualche caso le condividevo. In realtà, con questo romanzo, ero andato – per quei tempi – ben oltre i binari della mia autonomia e del mio ruolo professionale. Ero insofferente ed ero giunto a una conclusione: non volete il libro? Me ne farò una ragione.
Cominciai la mia seconda vita professionale: inviato speciale all’estero.
Due episodi. Ero stato incaricato di partire, ancora una volta, per Parigi. Dovevo raccontare la vita da esuli dei ricercati italiani per terrorismo. Il mio direttore, Piero Ostellino, presuntuoso ma schietto e sicuramente per bene, mi disse: «Lo so, lo so che Negri non ti ama. Dice che sei una specie di carabiniere». Risposi con una battuta: «Be’, direttore, quanto onore! Meglio somigliare a un carabiniere che a Toni Negri». Tornato a casa, mi consultai con la mia compagna di allora, Agnes Spaak. Reagì con istinto protettivo: «Non mi piace, Antonio. Torna subito al giornale». E mi suggerì: «Chiedi al direttore cosa volesse dire. Insomma da dove veniva quella battuta».
Tornai da Ostellino. Mi spiegò che era arrivata una lettera di Toni Negri dalla Francia. Era indirizzata a «Fabio Barbieri, caporedattore del “Corriere della Sera”». Informazione assolutamente inesatta. Sbagliata, falsa, anche se in realtà il collega de «il mattino di Padova» e poi inviato de «la Repubblica» era stato in corsa per essere assunto nel nostro «Corriere», e qualche giornale vi aveva accennato. Un membro della segreteria di redazione, Inigo Scarpa, aveva privilegiato la carica e non il nome del destinatario e aveva aperto la lettera. Ostellino mi spiegò che era formalmente un «corpo di reato». Arrivava da un ricercato, anzi da un condannato a trent’anni di prigione. L’azienda, mi disse, «l’ha fatta consegnare al magistrato».
Domandai: «Che cosa si dice nella lettera?».
Ostellino mi rispose: «Fanfaronate. Alla fine Negri si rivolge a Barbieri per chiedergli in sostanza di non utilizzarti su questi argomenti, in nome dell’antica amicizia». Barbieri era stato infatti in Potere operaio, proprio come il professore padovano.
«Direttore, quando è arrivata la lettera?».
«Mi sembra un mese fa».
«E tu non mi hai informato?».
«Ma no, Antonio. Non c’erano minacce dirette a te».
«Piero, mi hai esposto al rischio di finire stritolato da qualche fogliaccio calunniatore…».
«Secondo me esageri».
«Al punto che domani andrò anch’io dallo stesso magistrato. Farò una dichiarazione a futura memoria.» Così feci, e chiesi che fosse messa agli atti.
Chi non ha vissuto l’atmosfera di quegli anni velenosi non può immaginare, neppur lontanamente, come si viveva e come vivevano coloro che seguivano per il proprio giornale le vicende del terrorismo. C’erano le minacce, le tensioni, le paure personali e i timori familiari, le calunnie esplicite e quelle fabbricate con le allusioni.
Nel 1980 il mio collega Walter Tobagi, che con me raccontava i mali del nostro paese, era stato ucciso da un commando di praticanti terroristi, dopo essere stato sepolto di insinuazioni. Potete quindi immaginare quanto fosse delicata una lettera di un personaggio come Toni Negri, magari ripresa e commentata dai fogli che raccoglievano pettegolezzi e spazzatura. Forse amplificata da coloro – non sapete quanti! – che allora erano estremisti dell’ultrasinistra e poi sono entrati con le fanfare nelle stanze del potere. Soprattutto di destra. Ero turbato e sconcertato dalla gravità di quell’episodio.
Due giorni dopo partii per Parigi. Incontrai Oreste Scalzone e altri espatriati sfuggiti alla giustizia italiana. Nessuno di loro amava Negri. Una sera rientrai in albergo, al Montalembert, e il portiere mi consegnò un pacco. Dentro, una pila di fotocopie e un bigliettino anonimo in francese. Lessi: «Sappiamo la disavventura che ha avuto con il suo libro Il Segreto. Vogliamo farle sapere che cosa sta per pubblicare la Rizzoli. Titolo: Il treno di Finlandia, autore: Toni Negri. Trova qui le fotocopie del testo».
Ero allibito e, direi, scandalizzato. Ne scrissi tranquillamente in un paio di articoli, contando sul fatto che nessuno sarebbe intervenuto per chiedermene ragione. Ostellino è sempre stato un vero liberale. Ovviamente, svelato il segreto, scoppiò un piccolo scandalo in casa editrice, e il libro di Negri fu scartato. Uscì, in grave ritardo rispetto ai tempi previsti, con un piccolo editore.
Mi capitò, molti anni dopo, di incontrare Fabio Barbieri a Davos per il World Economic Forum. Stavamo cenando con i colleghi al ristorante Morosani. Si parlava di amicizia. Dissi: «Fabio, tu sei mio amico da anni, ma con me non ti sei comportato da amico. So che sei stato contattato dal nostro direttore generale di allora, Luigi Guastamacchia ».
Rispose: «Sì, è vero. Ci conosciamo e frequentiamo da tempo. Lo incontrai, mi parlò della lettera di Negri e mi chiese notizie e valutazioni sul tuo conto». Lo incalzai. «E tu, amico mio, non mi dicesti nulla? Vergognati.» I colleghi presenti nel ristorante di Davos impallidirono. Il nostro Danilo Taino, eccellente giornalista, grande corrispondente, analista e soprattutto uomo verticale, tornando in albergo mi prese sottobraccio e disse: «Antonio, quel che ho sentito è davvero sconvolgente ». Fabio, senza riferirsi direttamente a quell’episodio, si mostrava pentito e dispiaciuto. Qualche tempo prima di morire (era malato e lo avevo saputo), venne a Gerusalemme con la moglie. Gli stetti vicino in questo suo pellegrinaggio in Terrasanta.
Questo è il passato.
Oggi, come vedete, Il Segreto è uscito. L’ho riletto tre volte, per riprendere confidenza con una vicenda che ha segnato la mia vita. L’ostinazione ha vinto. «Guastafeste della memoria» mi ha definito con amicizia e simpatia l’ambasciatore Sergio Romano. Ne sono fiero. Ma c’è di più. Finirà che dovrò ringraziare chi, trentacinque anni fa, rifiutò di pubblicarlo. Oggi il mio romanzo quasi combacia con la realtà.