Sergio Luciano, Affari Italiani.it, in Dagospia 4 X 2015.
CASSE DI PREVIDENZA FRA DUBBI DI SOPRAVVIVENZA E DISSESTI SFIORATI (ENASARCO) O ESPLOSI (RAGIONIERI E FONAGE).
UN BUCO CHE È ARRIVATO AD UN LIVELLO PARI A 115,9 MILIARDI PER LA DIFFERENZA FRA IL PAGAMENTO DI 328,3 MLD DI PENSIONI E L’INCASSO DI 212,4 MLD DI CONTRIBUTI.
Sono una mina ma sono anche, e ancora, una miniera. Croce e delizia del sistema previdenziale (e quindi finanziario) nazionale. Oggetto del desiderio per le lobby ma anche fonte di angoscia per le categorie che dovrebbero tutelare. Stiamo parlando delle Casse previdenziali private, o, come dicono ormai in molti, “cosiddette private”, e vedremo perchè.
E’ un mondo, anzi di più: una galassia di enti Enti con un milione e 626 mila professionisti iscritti (dati di fine 2014). Con 65,6 miliardi patrimonio di cui 54,7 gestiti direttamente e 10,8 affidati con mandato a gestori esterni specializzati, si spera. La gestione diretta è il “cavallo di battaglia” di questi enti, e gli investimenti vengono concentrati nell’acquisto di titoli obbligazionari (28% delle risorse gestite direttamente), di quote di Oicr, ossia Organismi di investimento collettivo del risparmio (15%), e di investimenti immobiliari (30% circa considerando sia gli immobili, sia le quote di societa’ del settore).
Tutto lineare, tutto semplice? Mica tanto. Perché dalla Cassa Ragionieri, all’Enasarco al Fonage, negli ultimi anni si stanno moltiplicando i rischi, sfiorati (Enasarco) o esplosi (Ragionieri e Fonage), di dissesto finanziario.
Sullo sfondo, la dubbia sostenibilità di un regime pensionistico che finora è stato solo lambito dalle varie riforme, perchè questi enti, pur “vigilati” dal Ministero dell’Economia e della Finanze e dal Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale sono nominalmente privati e quindi godono ancora di una notevole autonomia decisionale…Ma in tutti i loro iscritti c’è il retropensiero, legittimato dal fatto che il saldo di bilancio di questi enti è stato assoggettato alla spending reiew, che se il settore si squilibrasse, interverrebbe lo Stato.
E quindi? Quindi, “il problema di sostenibilità che si pone ora per le casse private diventerà presto una questione nazionale”, sostiene un personaggio affilato e competente come Gino Pagliuca, un commercialista milanese che è anche consigliere comunale e si è preso la croce di presiedere la Cassa Ragionieri, una delle più malconce, dopo l’uscita di un predecessore a lungo molto celebrato e poi costretto a dimettersi da uno scandalo ancora non del tutto chiarito….
Addirittura una questione nazionale? Si direbbe di sì, se è vero che il sistema risente in pieno del vizio logico della formula retributiva: per cui ci sono, oggi, pensionati che hanno in passato versato centomila euro di contributi e stanno ricevendo in cambio una pensione dodici volte superiore;mentre domani ce ne saranno altri che dopo aver versato montagne di soldi per 40 anni, si ritroveranno con 700 euro al mese.
A rincarare la dose ha provveduto, qualche tempo fa, il sottosegretario al ministero della Giustizia, Cosimo Maria Ferri, secondo cui non si può più sottovalutare il fatto che “il sistema non solo non regge più dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista dell’equità”. Principio “che vale almeno quanto i diritti acquisiti”.
L’aria che spira, quindi, al governo sulle Casse previdenziali private è quella di riforma e razionalizzazione. Un po’ com’è stato fatto con le Camere di commercio, o con le banche popolari: pugno di ferro, in assenza di autoriforme. Proprio Ferri ha proposto che le venti casse siano riunite sotto un unico cappello, una sorta di superholding, veicolo funzionalmente più idoneo a confluire, un domani, nell’Inps, alla mala parata.
Fin qui la componente rischiosa del futuro delle casse: il loro essere per tanti valutatori una “mina” sotto il sistema previdenziale. Ma sono ancora una miniera, per altri versi, buona da sfruttare. Non a caso, da gennaio 2016 sarà operativa una norma che costringe – con le buone, per carità – i gestori dei loro patrimoni a cambiare politica d’investimento.
Chi punterà le sue “fiches” (sia pure entro un “plafond”) – e lo farà alla svelta, entro 90 giorni – sui settori delle infrastrutture in genere (strade, ferrovie, porti, aeroporti, ma anche sanità, acqua, digitale ed energia) potrà fruire di un bonus fiscale del 6%, purchè mantengano in portafoglio per 5 anni i titoli acquistati. Tutti soddisfatti i presidenti, rappresentati dall’Adepp, associazione guidata dal capo dell’Inpgi, l’oggi assai discusso Andrea Camporese.
Resta il tema della qualità di questi investimenti. E’ uno dei territori su cui vigila la Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione e le casse, che annualmente analizza flussi e consistenze dei patrimoni. La quota di immobili voluta dai gestori per dare solidità ai portafogli è molto alta: 11,5 miliardi, il 17,5% del totale, cui vanno aggiunti 7,6 miliardi di quote di fondi immobiliari e 693 milioni cioè l’1,1% di partecipazioni in società immobiliari: per un totale del 30,5% di risorse, la cui redditività è assai disomogenea e il cui valore non sio è certo giovato degli ultimi dieci anni di calo del mercato.
Per il resto, “la quota più rilevante delle attività è investita in titoli di debito”, si legge nella relazione Covip, “pari a 19,6 miliardi di euro, che rappresenta il 29,8% del totale. Oltre i due terzi di tale componente sono rappresentati da titoli governativi, circa 13 miliardi, il 19,7% delle attività totali. Gli altri titoli di debito ammontano a 6,6 miliardi, pari al 10,1% delle attività totali”. E, di questi “3,7 miliardi sono rappresentati da titoli non quotati, perlopiù di tipo strutturato”.
L’idea che il governo accarezza, e che intende attuare attraverso gli sgravi fiscali ma senza far misteri che va applicata per forza, a scanso di interventi diversi e più coattivi, è un’altra: che cioè terzo di patrimonio oggi bloccato in immobili sia destinato a investimenti di sostegno all’economia. Realizzando, a tal fine, gli asset nel mattone: facile a dirsi, ma come ben sanno all’Agenzia del demanio – che questo lavoro dovrebbe fare proprio per conto dello Stato-padrone – è tutt’altro che facile a farsi.
Il tutto assume tinte ancor meno brillanti se lo si inquadra nello scenario complessivo del sistema previdenziale italiano, dove sta emergendo la parte negativa della curva – peraltro prevista, ma non per questo meno inquietante – del rapporto tra contributi previdenziali incassati e trattamenti pensionistici pagati.
Un buco che è arrivato ad un livello pari a 115,9 miliardi per la differenza fra il pagamento di 328,3 mld di trattamenti pensionistici e assistenziali e l’incasso di 212,4 mld di contributi, contro gli appena di 92,3 miliardi di quattordici anni fa. Certo, con l’arrivare a regime delle misure introdotte dalla Legge Fornero, lo squilibrio rientrerà, ma sempre che le previsioni demografiche ed economiche veranno confermate dai fatti.
Come farà la sterminata “vandea” delle Casse a restare sana, in questo cammino nebbioso che le si prospetta?