Francesco Gallo Mazzeo*, Climax in Lamaroarte, 28 I ’23
FUTURISMO. CENTENARIO
I cento anni, li ha abbondantemente superati, visto che il suo primo manifesto generale, il futurismo, lo ha visto pubblicato sul quotidiano parigino “Le Figaro” nel 1909, incitando, gli artisti, i giovani, i popoli, gli italiani, in particolare, ritenuti sonnacchiosi e un po’ (in realtà, molto…) pigri, al coraggio, alla temerarietà, all’energia, al pericolo.
Certo, i suoi protagonisti e il suo linguaggio, ci appaiono, per tanti versi, di un altro mondo, non fosse altro, che per le certezze granitiche, di cui erano pieni, per le altisonanti parole e affermazioni, non solo sul chiaro di luna, da abolire e sulla asfaltatura del Canal Grande di Venezia, ma anche per l’esaltazione acritica del macchinismo, della guerra, della violenza. Li accogliamo, non alla lettera, perché neanche essi stessi lo facevano, ma per la loro forma e sostanza metaforiche, poetiche, teatrali, tese a creare scandalo, dove c’era imperante un eccesso di tradizionalismo, che è stanca banale ripetizione, mentre la tradizione, in sé, è gioia umanistica del nuovo.
Ritenevano mollicci e ritardatari, l’impressionismo, l’espressionismo e reazionaria la secessione viennese. E, così, là dove il cubismo è stato elitariamente pittorico, parigino e aristocratico, il futurismo è stato interdisciplinare, interessando tutto l’universo delle discipline artistiche, dalla pittura, alla scultura, dalla musica, alla poesia, al teatro, all’architettura, all’urbanistica, ma sforando anche su moda, cucina e interessandosi anche di giovani, di vita quotidiana e politica.
Con il futurismo, si chiude un’epoca di minorità italiana, culturale e artistica, rispetto a Vienna, a Parigi, a Londra; una minorità durata per tutto il rapido ottocento (che però ci ha dato l’unità nazionale e il colosso Giuseppe Verdi…) che ci aveva visto arretrare, già dal sei settecento, dal primo posto che avevamo nel cinquecento. Il futurismo, è il “miracolo” dell’Italia unita, che può coniugare talenti del nord e del sud, unificando le tante “italiette” da barzelletta, che erano diventate, le già gloriose repubbliche marinare e ducati vari, ridotti a puri fantasmi.
Il futurismo italiano è diventato poi secondo futurismo, aero futurismo, futurismo internazionale, mondiale, riportando il nostro paese, in rango e su pedana, da cui mancava dai secoli del Rinascimento, proponendo una visione dell’arte aperta alla modernità, cioè ad una ardita sperimentazione e contaminazione, ad una originalità non più ancorata necessariamente al criterio delle belle arti, di brutto o di bello, ma di un sistema di arti visive, orientate all’emozione, alla gestualità, alla nozione di interesse sublimante.
Da questo punto di vista, il futurismo (come anche il cubismo e il dadaismo) rimane endemico, perché ha conquistato il senso comune; esiste anche senza essere incarnato, senza essere nominato, senza che Marinetti, Boccioni, Balla, Severini, Sant’Elia, siano riconosciuti e salutati per strada; e di questo possiamo essere orgogliosi, a patto di recepirlo, come un evento metodologico e non come un dogma.
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* Docente emerito Accademia Belle Arti di Roma. Docente di Linguistica applicata ai nuovi linguaggi inventivi delle arti visive in Pantheon Institute Design & Technology di Roma e Milano
Nell’immagine in alto: Giacomo Balla, Forze di paesaggio – cocomero, 1917-8 [NdS]