Angela Biancini, La Stampa, 18 IV 2014.
“CENT’ANNI DI SOLITUDINE” E FU SUBITO UN’ESPLOSIONE.
Cent’anni di solitudine appartiene alle parole o espressioni che oggi possediamo, infatti la adoperano anche coloro che non si rendono conto di citare il titolo del capolavoro di Gabriel García Márquez, colui che, in certo senso, ha dato visibilità all’America Latina. Il romanzo nacque quasi per caso, mentre lo scrittore colombiano, come lui stesso ha narrato, stava andando da Città del Messico ad Acapulco, sulla sua vecchia macchina, in compagnia della moglie Mercedes e dei suoi due figli. Fu allora che capì improvvisamente di dover seguire le storie che lo inseguivano da anni. Girò la macchina, tornò a casa, si mise a scrivere, tralasciando ogni altra attività. Per campare fece debiti.
Nel maggio 1967, Cent’anni di solitudine era pronto, l’editore ne aveva stampato ottomila copie che a Márquez parevano eccessive, e furono invece esaurite in otto giorni. Fu subito un’esplosione, che nel 1982 gli sarebbe valso il premio Nobel.
Le opere scritte da Márquez prima di Cent’anni, pur anticipandolo, posseggono un valore proprio che fu subito riconosciuto. Già nel 1955, con il romanzo La hojarasca, tradotto in italiano come Foglie morte, dove abbastanza evidente è, secondo alcuni critici, l’influenza di Faulkner, fa la sua comparsa il paese di Macondo come spazio archetipo della narrativa futura, grazie ai ricordi e le riflessioni di tre personaggi, un bambino, sua madre e il nonno, un vecchio colonnello, che già porta il nome di Aureliano Buendía. In Nessuno scrive al colonnello, del 1961, pur abbandonando lo spazio di Macondo, Márquez delinea la figura di un veterano, non dissimile da Aureliano Buendía: malato e povero, invano attende la pensione a cui ha diritto. Per il suo orgoglio, lo scrittore lo presenta come una reincarnazione dell’hidalgo di Lazarillo de Tormes.
Nel 1962, arrivano I funerali della Mamá Grande, e anche qui troviamo l’esaltazione della forza e della dignità, in questo caso di una donna che già prelude alla figura della longeva Ursula nel capolavoro di tre anni dopo. E poi, finalmente, Cent’anni di solitudine, quando Márquez, riannodando i fili e le suggestioni precedenti, dà vita a un mondo nuovo, trasfigurazione del luogo dov’era nato. Romanzo di innumerevoli personaggi, tutti discendenti dalla mitica coppia dei fondatori di Macondo, José Arcadio Buendía e Ursula, attraverso uno svolgimento organizzato, ma anche labirintico, cattura il lettore, trasformandolo, come è stato detto, in una sorta di complice dello stesso destino della città, prima la sua fondazione e la sua fortuna, dovuta alla piantagione di banane creata dai nordamericani, poi la rovina definitiva. Insomma, un’intensa radiografia dell’America Latina, nella sua verità apparente e anche nel suo mistero,
Negli anni seguenti, García Márquez continuò a offrire amplificazioni e correzioni di questo stesso mondo, anche se di respiro più breve. Nel 1975, L’autunno del patriarca mette in scena un dittatore archetipico, creando, sempre in Colombia, una sorta di Macondo sulle rive dell’Atlantico: ancora una volta un’America magica e violenta. Nel 1981, Cronaca di una morte annunciata è la riuscitissima simbiosi tra il racconto e il giornalismo, e iniziando con la notificazione della morte del personaggio crea un romanzo molto suggestivo che si è prestato assai bene all’adattamento cinematografico. E infine, nel 1985, L’amore ai tempi del colera dà vita a quella convinzione fondamentale che Márquez inserisce, in modi diversi, in tutta la sua opera, vale a dire che l’amore è l’amore «in qualsiasi tempo e in qualsiasi parte, ma tanto più forte quanto è più vicino alla morte».
Questa stessa convinzione la troviamo in forma autobiografica proprio a conclusione di Vivere per raccontarla, primo volume delle sue memorie, uscito nel 2002. Dopo gli anni fondamentali dell’infanzia e della giovinezza, Márquez, ora in procinto di partire per l’Europa, è in attesa di una risposta della sua innamorata Mercedes. Nel caso che questa non arrivi, ha deciso che non tornerà più in patria. Ma la lettera arriva, e si compie così il destino di un grande narratore appassionato.
Negli ultimi anni della sua vita, García Márquez aveva spaziato, come sempre, tra passato e presente, tra giornalismo e romanzo. Già in A ruota libera, affresco di un’opera tumultuosa terminata nel 1995, aveva rivelato uno straordinario ottimismo personale e politico, nonostante la malattia mai confermata dalla moglie.
Quell’ottimismo che ricomparirà nell’ultimo romanzo, Memoria delle mie puttane tristi (2004), in cui affiora di nuovo la linea autobiografica unita alla saggistica. García Márquez rimane così quale esempio di narratore politico e anche personale, di grande cantore di un’epoca difficile e tumultuosa, non priva di contraddizioni ma anche di speranze. Cantore delle sue stesse straordinarie invenzioni.