Corrado Stajano, Corriere della Sera, 27 V 2015.
Esce “Collusi”.
Il coraggio non cancella la paura
Per Di Matteo la guerra si vince se non si scende a patti con il nemico (né con se stessi).
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«Io resto al mio posto, non mi rassegno a questo stato di cose. Soffro tremendamente le limitazioni della mia libertà, nel tempo divenute sempre più pressanti, ma ho anche buoni motivi per reagire allo scoramento e alla stanchezza mentale». A esprimersi così è Nino Di Matteo, pubblico ministero del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo, l’uomo più odiato da Cosa nostra, il magistrato che Totò Riina vuole morto. Con il giornalista Salvo Palazzolo, Nino Di Matteo è autore di Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia, appena pubblicato dalla Bur (pagine 186, e 16,50).
Il libro è un documento prezioso non soltanto per conoscere a fondo le pratiche della trattativa con i poteri criminali, comportamento devastante per uno Stato di diritto, anche se non sembra che il dibattimento in corso venga seguito con la dovuta attenzione dall’opinione pubblica.
Collusi è anche una lezione di umiltà così com’è costruito, capace però di prendere alla gola per il dramma che raccontano le sue pagine, per le storie sanguinanti che hanno lacerato e seguitano a minacciare un Paese civile come il nostro. Di Matteo ha mostrato di avere la schiena diritta, anche se il coraggio, confessa, non cancella la paura. Ma chi potrà ripagarlo di quel senso di solitudine, di isolamento e di spaesamento che tanti fedeli servitori dello Stato, prima di lui, soffrirono in quel Palazzo dei veleni di Palermo? Non si contano le minacce, i propositi di ucciderlo, gli ossessivi ordini di morte di Totò Riina. Ne parlò in carcere, all’ora d’aria, registrato da una telecamera, con il boss pugliese Alberto Lorusso.
Le testimonianze dei «pentiti», poi: Vito Galatolo, di una temibile famiglia stragista, ha confessato pochi mesi fa a Di Matteo che a Palermo era arrivato l’esplosivo, duecento chili di tritolo, tutti per lui (pare, speriamolo, che il magistrato sia ben protetto. Giovanni Bianconi ha scritto sul Corriere che, oltre alle normali misure di sicurezza per la sua tutela, è in funzione anche il bomb jammer che serve a rilevare gli ordigni attivati a distanza). «Se si vuole vincere la guerra, e non semplicemente le battaglie, non si deve scendere a patti con il nemico. E nemmeno dargli la sensazione di scendere a patti»: è il leitmotiv di Collusi. Se Cosa nostra fosse soltanto una normale organizzazione criminale sarebbe stata ovviamente annientata, in un secolo e mezzo di esistenza, dalle forze di polizia.
Sono state e sono proprio le sue connessioni con il potere politico e finanziario e con l’ambiguità di uomini corrotti delle istituzioni ad aver fatto della mafia il mostro che è. I politici imputati davanti alla Corte d’Assise di Palermo non rispondono del «reato di trattativa», scrive Di Matteo. Quel che viene contestato agli uomini delle istituzioni è di aver «consapevolmente assunto il ruolo di cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo nel prospettare i desiderata dell’organizzazione mafiosa, così concorrendo al vero e proprio ricatto che i boss stavano portando avanti nei confronti delle istituzioni». È nata così la contestazione «del reato di concorso in violenza o minaccia al corpo politico dello Stato».
Di Matteo analizza gli anni focali dell’ultimo Novecento, il 1982, l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa; il 1992, l’assassinio del dc Salvo Lima, gran luogotenente di Sicilia, punito perché non rispettò i patti con la mafia e, nello stesso anno, gli assassinii di Falcone e di Borsellino. Le zone d’ombra mai cadute, le domande senza risposta, i sospetti sulla trattativa sono ancorati a quegli anni. L’estate delle lenzuola bianche di Palermo — il popolo della città visse allora ribelle nelle strade — finì presto, per stanchezza, delusione. Poi la controffensiva della mafia, il 1993, e l’oscura stagione delle stragi-ricatto di quella primavera-estate a Roma, Firenze, Milano. Non sono stati sufficienti i processi, le indagini, le condanne di personaggi di rilievo a dire la verità su quanto accadde.
E non ha certo contribuito alla chiarezza il conflitto tra la Procura di Palermo e il Quirinale, con le imbarazzanti telefonate tra Nicola Mancino e l’allora presidente della Repubblica, nel 2011-2012, di cui tutto si doveva sapere.
Collusi è una miniera di documenti, fatti, giudizi che fa capire il mondo della mafia anche a chi crede di conoscerlo. Qualche tema affrontato nel libro: la sottigliezza delle strategie criminali dell’organizzazione che non è più quella dei disegni di Bruno Caruso, coppola e lupara. I patti di scambio tra mafia e politica: elettorali, economici, imprenditoriali. Le mani sugli ingenti stanziamenti pubblici. La figura dell’intermediario insospettabile. I boss che non hanno più bisogno di farsi avanti, è lo Stato che li cerca. Il riscatto della Chiesa, l’importanza di papa Francesco. Le talpe nelle istituzioni. Il rischio delle fonti confidenziali. La prudenza e la pavidità di non pochi magistrati e i pericoli quotidiani che vivono invece coloro che «vanno troppo oltre». Il ruolo di certa massoneria. La troppo lunga latitanza di Matteo Messina Denaro che fa sospettare si voglia proteggere chi custodisce segreti inconfessabili sulle stragi.
Un libro importante, Collusi. Soprattutto utile in un Paese senza memoria.