Comunicato in www.camerepenali.it, 20 III 2014.
Separare i litiganti, separare le carriere.
Dello scontro milanese non ci interessa la lite in sè ma i meccanismi di funzionamento che essa disvela, certificando patologie giudiziarie che sono note a chi frequenta i palazzi di giustizia, ma sempre negate dagli interessati. La magistratura esercita un potere reale e forte che, in quanto tale, crea tensioni e talvolta fa saltare il coperchio della pentola, subito richiusa con commenti minimizzanti. Altre volte a squarciare il velo è, invece, l’eccesso di sicurezza che il potere infonde, portando chi lo maneggia a redigere circolari che confessano la quotidiana violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, ovvero la commistione ed i condizionamenti tra pubblici ministeri e “colleghi” giudici.
Succede così che procuratori dettino criteri di preferenza nel trattare i fascicoli, attribuendosi una facoltà di scelta che la legge può al limite attribuire al giudice, ma non al p.m. che esercita l’azione penale obbligatoria. Specularmente accade che sostituti rivendichino determinati fascicoli secondo criteri vincolanti per il procuratore, pretendendo di affermare così un principio di “giudice naturale” che riguarda il giudice, appunto, e non il pubblico ministero. In sostanza, l’unicità delle carriere di magistrati giudicanti ed inquirenti genera una grave confusione di ruoli, mentre il sistema giudiziario li vorrebbe marcatamente diversi, con – volendo banalizzare al massimo – uffici requirenti dove i fascicoli sono assegnati dal “capo” ed uffici giudicanti dove i fascicoli sono assegnati dal “caso”.
La contrapposizione interna alla Procura di Milano è tutta figlia di questa confusione e, oltre a confermare le ragioni della storica battaglia delle Camere Penali per la separazione delle carriere dei magistrati, sembra anche accreditare la famosa battuta di Luciano Violante sulla separazione delle carriere tra giornalisti e pubblici ministeri. I resoconti dei cronisti giudiziari più informati (tanto dei fatti specifici quanto – evidentemente – delle prassi) non hanno mancato di far intuire come lo spostamento dei fascicoli contesi sia stato agevolato dalla fuoriuscita di “indiscrezioni” su organi di stampa (ovviamente, non quelli in cui scrivono i citati cronisti), il che, trattandosi di fascicoli così segreti da stare chiusi in cassaforte, fa intuire un novero molto ristretto di possibili “fonti” della notizia, con buona pace dei soliti rivoltatori di frittate che usano individuarle negli avvocati. La verità è che lo strumento mediatico, in auge nelle indagini preliminari – così per preparare arresti e farli mantenere, come per indurre delazioni e fiaccare resistenze – diventa inevitabilmente di uso comune anche nelle lotte intestine. Allo stesso modo, a ben pensarci, del ricorso all’arma giudiziaria, avvenuto in recenti contrapposizioni tra diverse Procure, ma almeno finora risparmiato a Milano.
Nulla di nuovo sotto il sole: il passato ha visto storie di “corvi”, connaturate ai luoghi di potere, e nelle Procure della Repubblica si esercita quello vero. Infatti, è lì che si decide – senza cambiare i codici – quale reato verrà perseguito e quale no; se chi denuncia una truffa troverà giustizia, o una pressoché automatica richiesta di archiviazione, oppure il suo processo sarà semplicemente lasciato morire (i due terzi del totale delle prescrizioni matura nelle indagini preliminari). E’ lì che si intercetta anche fuori dal consentito, iscrivendo un reato più grave destinato ad essere derubricato, oppure si sceglie il tempo d’iscrizione della notizia di reato senza subire un reale controllo. E’ lì che si soprassiede ad un atto dirompente per la concomitanza d’un cruciale evento politico o economico o, viceversa, lo si accelera per lo stesso identico motivo; che si decide se il poliziotto infiltrato merita l’encomio o l’oltraggio e fin dove il politico può spingersi ad amministrare senza il previo assenso del procuratore.
In definitiva, la vicenda milanese è il naturale portato di un sistema giudiziario che necessita di una urgentissima riforma costituzionale della giustizia. Quella riforma che viene impedita da troppi lustri opponendo i pretesti e le emergenze più varie – dal terrorismo a Berlusconi – ma con l’unico obiettivo di mantenere in vita, nell’Italia democratica e repubblicana, un ordinamento giudiziario, pensato e varato dal regime autoritario dell’Italia fascista.