Nel “paradiso” della Rete s’aggirano serpenti digitali
L’intervento della scrittrice Dana Spiotta al festival «La Milanesiana», ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi. La scrittrice statunitense confessa i suoi timori su web e social: “Attenti: siamo monitorati da governi e multinazionali”.
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Ho sempre provato sentimenti contrastanti riguardo al proliferare delle nuove tecnologie. Da una parte, lo sviluppo della capacità di comunicare a distanza ci offre la possibilità di cercare una comunità in base a quello che siamo e a quello in cui crediamo piuttosto che a dove ci troviamo. Grazie agli sms e alle email abbiamo a disposizione interessanti varianti dell’intimità, e ognuno di questi modi di comunicare ha le sue nuove, caratteristiche sfumature. Dall’altra, è difficile non vedere le distorsioni della comunicazione digitale, o come l’apparecchio che tengo in mano renda le mie azioni ripetitive e compulsive: controllare le email, i messaggi, Twitter, e poi c’è la sensazione che provo quando sento una suoneria di notifica e la difficoltà di scollegarsi dal costante flusso di informazioni, personali e globali. E temo davvero gli effetti che tutto questo può avere su di noi.
Quando si è sommersi dalle informazioni, la resistenza sembra futile, e ciò significa che si mantiene lo status quo o, ancora peggio, che i demagoghi abili nello sfruttare la tecnologia possono fare veramente presa. Non riusciamo a tenere il passo la rapidità delle proliferazioni e delle reiterazioni ci rende vulnerabili, irriflessivi e impulsivi. Questi mondi virtuali interattivi ci fanno sentire liberi non solo dalle realtà dei corpi e della geografia, ma altresì dalle conseguenze delle nostre parole. A quanto pare, abbiamo bisogno della presenza fisica dei corpi, per non perderci.
Non sono luddista, e continuo ad amare le promesse insite nella rete. Amo il motto «L’informazione vuole essere libera» di Stewart Brand, l’idealismo di Wikipedia, il crowdsourcing e i software gratuiti. Il sogno collettivo. Nessun guardiano, nessun limite, nessun confine. Un musicista o uno scrittore non deve più chiedersi se avrà mai la possibilità di far conoscere la propria opera al mondo. Una ragazzina non si deve più sentire isolata dopo essere stata violentata, un ragazzo gay non deve più credere di essere l’unico, non ci troviamo più a domandarci se siamo gli unici a pensarla in un certo modo. Inoltre, possiamo usare Twitter o Facebook per radunare e schierare un gruppo per una protesta nella Vita Reale: il cellulare come strumento sovversivo, capace di organizzare furtivamente una resistenza. Siamo in grado di comunicare orizzontalmente, e ciò sembra avere un grande potenziale rivoluzionario. In quanto semplice modo per registrare e diffondere informazioni di contrabbando, la tecnologia è anch’essa rivoluzionaria, ricollegandosi al momento fondamentale in cui Rodney King fu filmato con una videocamera mentre veniva picchiato dalla polizia. La proliferazione di quell’immagine avrebbe poi costretto Los Angeles a fare dolorosamente i conti con anni di abusi a sfondo razzista della polizia. Se mostriamo le prove, non possono essere negate. La testimonianza digitale non è solo un tipo di prova, può anche avere una diffusione tanto ampia quanto rapida, diventando virale e determinando un cambiamento, o quantomeno una presa di coscienza. Anche se non viene poi fatta giustizia, e nessun poliziotto viene condannato per questi incidenti, non possiamo fingere che non siano avvenuti, non possiamo fingere che non ci sia un problema. La tecnologia dà visibilità agli oppressi e alle vittime di violenze, il che è innegabilmente un bene.
Eppure anche questo aspetto positivo va a braccetto con la paura. Tramite le nostre attività online, siamo sorvegliati e le nostre vite vengono quantificate e monetizzate dalle multinazionali. Siamo ciò che compriamo, ciò cui diamo un «like», quanti follower abbiamo. Le nostre vite sono monitorate dalle forze dell’ordine e da enti governativi. Le email vengono inoltrate. Le foto personali postate da ex su siti web. Ciò che credevamo privato viene hackerato e reso pubblico. La gente non riesce a resistere alla tentazione di guardare, per quanto umiliante possa essere per la persona messa alla berlina. I nostri confini psichici non sono sotto il nostro controllo. Dobbiamo accettare l’idea di un futuro senza privacy, dove ogni cosa potrebbe venire alla luce, oppure diventare paranoici, esageratamente guardinghi. I segreti possono restare tali solo se vengono sussurrati nella Vita Reale, ma non riusciamo a ficcarcelo in testa, e così la rete continua a metterci dolorosamente a nudo: le nostre ricerche e le nostre paure restano legate per sempre alle nostre identità, impronte accessibili a chiunque si prenda il disturbo di guardare.
C’è tuttavia un altro aspetto, che dipende dalla pura e semplice velocità di queste tecnologie. La rapidità con cui agiscono su di noi è superiore alla nostra capacità di assimilarle. Adottiamo una tecnologia e solo in seguito ci rendiamo conto dell’effetto che ha avuto su di noi. E così il compito dello scrittore consiste nel tentare di descrivere come funziona tutto questo. Se lo comprendiamo, possiamo resistere, o resistere meglio. O quantomeno interrogarci sulle conseguenze nocive che derivano da questi doni. A mio avviso, esse dipendono soprattutto dalla velocità con cui l’informazione si sposta da e verso di noi, dalla velocità con cui creiamo e consumiamo informazioni. Ciò non favorisce la riflessione, né la complessità. Ci rende impulsivi e reazionari. Quanto maggiore la velocità, tanto più intensa la nostra ansia. Abbiamo paura di perderci qualcosa, e tuttavia siamo sommersi dall’infinità di informazioni disponibili. È la vecchia trappola consumista dell’eccesso di scelta che ci paralizza, senza dubbio. Ma questa è anche partecipativa, di modo che lanciamo a nostra volta, frettolosamente, messaggi all’universo. Tweet, post su Facebook, commenti: sebbene composto in un attimo, tutto ciò resta eternamente visibile. Ecco la mia paura: che i nostri pensieri siano adesso la prima cosa che ci è venuta in mente, pensieri usa e getta, non rivisti né corretti. Da scrittrice, so che questi pensieri sono privi di finezza e sfumature. C’è quindi da stupirsi se quando operiamo in questa modalità di lettura e scrittura ad alta velocità siamo riduttivi, senza mezze misure, ipercritici e rabbiosi? Se diffondiamo notizie fasulle, inoltriamo informazioni non verificate, partecipiamo a una tempesta di tweet finalizzata a umiliare qualcuno, usiamo hashtag per vessare e molestare e infine violiamo i principi basilari della decenza? A quanto pare la gente, quando non si trova in presenza dell’altro e non ne vede il volto, può diventare crudele. Amplifichiamo alcuni aspetti di noi stessi, ma sembra che la velocità, sommata al distacco dalle conseguenze, non amplifichi i nostri aspetti migliori, e sicuramente non la nostra intera personalità. Questa paura è dunque in parte una paura di noi stessi, e del fatto che se non conosciamo noi stessi siamo più facili da manipolare.
L’idealismo della rete sembra più lontano; ci trasformiamo invece in versioni distorte di noi stessi: versioni solitarie e barbare per un’epoca di solitudine e barbarie.