Gino Castaldo, Repubblica, 3 VI 2020
Fabrizio De André, “Creuza de ma” e l’intervista ritrovata del 1984: “Quest’album non venderà niente”
Era l’aprile del 1984 e Fabrizio De André aveva appena messo sottosopra il mondo della canzone con una strabiliante magia intitolata Creuza de mä, un intero disco cantato in un musicalissimo ma incomprensibile dialetto genovese.
Uno dei massimi artisti italiani della parola cantata ci stava dicendo che non voleva essere capito, o meglio che in questo caso essere capito o meno non aveva alcuna importanza, proprio lui che era il più nitido e carismatico cantore di storie, lui che aveva scolpito versi indimenticabili.
Una svolta epocale. Creuza de mä, firmato insieme a Mauro Pagani, era un disco sublime e coraggioso che volava su onde di musica mediterranea in un viaggio di incanto. Quel giorno Fabrizio si presentò insieme a Mauro Pagani, e per tre ore ci chiudemmo in una stanza della sede romana della Ricordi.
Quello che segue è il resoconto in gran parte inedito di una straordinaria conversazione che iniziò più o meno con queste parole: «La canzone è un miracolo, come la moltiplicazione dei pani e dei pesci a cui del resto non ho avuto la fortuna di assistere. Come si fa altrimenti a spiegare un’emozione, soprattutto se poi la devi comunicare? Più cerchi di spiegarla più se ne va aff* tutto quello che da un punto di vista scientifico è imperscrutabile, immotivato».
Da dove parte il lungo viaggio che vi ha portato al disco?
«Nasce dal mio amore per la musica etnica e dalla possibilità di lavorare con uno che questa musica la conosce sul serio, quasi un etnologo nella capacità di usare certi strumenti. Mi rendo conto che un oud arabo suonato da un bresciano può sembrare strano, ma funziona a meraviglia. La verità è che eravamo stufi della narcosi che viene fuori dai suoni ripetitivi che si sentono in giro, abbiamo usato un abito talmente vecchio che paradossalmente sta tornando di moda».
Eppure alla fine per rappresentare questa vastità avete scelto di usare solo il dialetto genovese. Come mai?
«Ero partito dall’idea di usare varie lingue, ma non ne ero padrone, conosco bene il sardo dell’interno, e anche l’occitano, ma alla fine il genovese mi sembra appropriatissimo stilisticamente, e ci sono rientrato, perché di fatto non lo parlavo da anni.
Di base avevamo paura che nascesse un Minotauro, se avessimo usato la lingua italiana sarebbe uscito fuori un mostro perché comunque la lingua italiana che si usa per versificare è una lingua aulica, e invece le piccole etnie usano il loro vocabolario per intero, comprese le parole cosiddette sconce, senza che nessuno abbia niente da ridire.
Se in italiano dici “fica, cazzo” pensano: questo vuol fare il furbo e vendere più dischi. Così invece ho potuto parlare molto più liberamente».
Non c’ è la paura di essere poco compresi fuori da Genova?
«Dico la verità, sono convinto che la lingua decade a indegnità di dialetto e un dialetto assurge a dignità di lingua solo per motivi storici e politici, non per motivi intrinseci all’idioma stesso, perché quando un idioma ha abbastanza avverbi, aggettivi e parti del discorso per esprimere non solo le sue ragioni ma anche i sentimenti, a quel punto è una lingua.
Ad esempio il Portogallo che era una regione iberica, liberata definitivamente dal giogo castigliano dal Seicento, si è andato a prendere il Mozambico, l’Angola e il Brasile, ma non si può dire che in Brasile parlino un dialetto portoghese, è diventata lingua.
Genova fu venduta ai piemontesi col Regno d’Italia, e i genovesi hanno dovuto dire: da oggi noi parliamo il dialetto genovese. A Genova ormai gli scalini li chiamano “scalin”, io mi ricordo che si diceva “scain”, il posto lo chiamo “scito” come in italiano “sito”, nel disco ci può essere qualche piccolo errore di pronuncia perché sono tanti anni che sto a Milano e non riesco a parlare il genovese, ma ho cercato di essere preciso, è il dialetto a cui sono rimasto, quello delle strade di via Piave e via Trieste dove facevo le sassaiole con gli altri “ragazzacci”, all’ epoca passava una macchina ogni ora e mezzo, si giocava alle “grette” coi tappi delle bibite disegnati con i colori delle maglie delle squadre ciclistiche. Pur essendo di estrazione medio-borghese non mi hanno mai impedito di frequentare la strada, per fortuna».
A cominciare dal titolo, in questo disco si percepisce ovunque il mare, quasi fosse un viaggio che collega idealmente con suoni e riverberi i diversi porti del Mediterraneo. Qual è alla fine il suo rapporto col mare?
«Un rapporto abbastanza diretto, l’ho preso per andare a pescare, l’ho preso per fare dei viaggi, per emigrare, anzi sono uno dei pochi casi di emigrato ligure in Sardegna.
Per quanto mi riguarda il mare è un posto dove si vive malissimo, infatti nessuno è più amante della terra del navigante, e infatti Creuza de mä, la mulattiera di mare, vede il ritorno di questa gente bagnata fradicia, insalinata, che arriva a farsi finalmente una mangiata in terra».
Questo disco in dialetto modifica nella sostanza il suo approccio da cantautore?
«Per la prima volta ho deciso di non fare il cantautore ma il cantante, quindi ci siamo preoccupati del suono, del fonema cantato, il dialetto genovese è ricchissimo di iati, dittonghi, forse più dell’inglese.
Perché dovrei dire ma-ri-na-io quando c’è “mainà” che posso tenere a lungo, “mainààààà”, oppure troncare secco “mainà”. Trovo più divertente fare una cosa che si ascolti volentieri e che comunichi delle emozioni, senza per forza dover fare dei “bei” testi. Diciamo che questa è musica cantata».
Come pensa di sostenerlo un disco del genere, o più banalmente come pensa di promuoverlo?
«Intanto non trovo indispensabile associare la persona al disco che ha fatto. Bisognerebbe arrivare a Borges, a pensare che l’autore non dovrebbe neanche esistere.
Abbiamo cercato di dare un calcio a una porta chiusa, e non venderà un cazzo (il disco al contrario è uno dei più venduti della storia della discografia italiana, ndr) ma non è che mi disturbi, cioè mi disturba sul piano economico, io in banca ho pochi milioni con un’azienda agricola da mandare avanti in cui rimetto i soldi, quindi io e Dori siamo due straccioni, ma se il lavoro dell’artista deve essere svilito, ok, sviliamolo, ma non andiamo a fare gli spot, quello no, non accetto l’ansia di vendere, anche se sono ansie che ti fanno venire, e intendiamoci non voglio parlare male dell’industria discografica della quale usufruisco ampiamente, ma queste ansie mi vengono comunicate anche in sala in realtà quando superi gli ottanta milioni di budget per un disco vanno tutti in crisi, dicono ommammamia. Per me è molto più facile scrivere un pezzo che non andare a promuoverlo, anzi per me è una vergogna andare in giro a reclamizzare il mio prodotto come se fossi un venditore di castagne».
Quindi di andare in televisione non se ne parla?
«Il fatto è che se tu ci vai e sei una persona lunatica e in quel momento non ti senti bene, devi avere la possibilità di dirlo al pubblico, come in concerto, se non sto bene io lo dico: scusate guardate, stasera sarà un concerto del cazzo perché sto male o perché sono ubriaco, è una cosa umana, normale, sono un automa?».
Dal vivo è tutt’altra cosa. Anni fa però le capitò di essere contestato in un concerto con la Pfm, anche se da un piccolo gruppo di estremisti.
«Negli anni Settanta succedeva. Francesco (De Gregori, ndr) ci ha messo sette anni per tornare a suonare a Milano, dopo che fu processato a un concerto. Io ho detto una cosa molto semplice, lo consideravo un disturbo di una minoranza a danno di una maggioranza. Ognuno era libero di fare quello che voleva, ma io me lo ricordo, scesi giù in platea, gli andai addosso, non mi stava bene, io non ce l’avevo con nessuno e non vedo perché qualcuno dovesse avercela con me. Io stavo lavorando».
Di base però il suo rapporto col pubblico non è mai del tutto sereno…
«Mi sento sempre sotto esame, non sono mai tranquillo e, senza andare troppo nel profondo, è semplicemente la paura di essere giudicato. Il fatto è che ho cominciato a cantare in pubblico a 35 anni, il primo concerto fu alla Bussola il 18 di marzo del 1975. Il secondo a Pisa per Lotta Continua e il terzo a Piazza Navona, per Pannella».
Quanto è importante collaborare?
«Decisivo. Di 120 canzoni che ho scritto, sessanta usufruiscono della collaborazione altrui, quando uno è in carenza creativa l’importante è trovare i collaboratori giusti, un disco è un mosaico, come il cinema, qui siamo noi due, io e Mauro, e lui ha scritto i pezzi come gli sembrava che venissero bene. All’arrangiatore una volta al massimo dicevo: mi raccomando le tonalità, io canto in la minore, sol minore oppure in do maggiore, tutto qui, spesso mi arrivava l’arrangiamento già finito.
Ora è diverso, Mauro è un creativo, del resto io non mi sento come Leopardi che dice eccomi qui, messo a nudo, da solo sulla montagna, mi ispiro e vi do il verbo. Anche il modo di fare dischi è cambiato, per fortuna. Agli inizi entravi in un vecchio studio, c’era la regia con gente che ti guardava da lontano, distante, sembrava di essere ricevuti da Mussolini. Ma tanto, alla fine, il nostro hobby è vivere, peccato che possiamo dedicarvi poco tempo».
* * *
[Cliccando sull’immagine in alto si accede al video del brano “Creuza de ma” live dal teatro Brancaccio, 1998]