Raffaele Ricciardi, Repubblica, 16 II 2017
P.A., De Rita: “Non basta una riforma per rinsaldare il rapporto tra potere e popolo”
Il sociologo sul Testo Unico che prevede maggiore partecipazione dei dipendenti pubblici e sanzioni più severe per chi rende poco: “Se non verranno attuate resterà un annuncio”
Riuscirà il nuovo Testo Unico sul Pubblico impiego a riavvicinare i cittadini e la pubblica amministrazione? Difficile, a detta del sociologo Giuseppe De Rita, nonostante il tentativo di introdurre meccanismi incentivanti e meritocratici nella valutazione del personale pubblico. Uno sforzo che secondo il professore non riesce a scalfire il vero nodo del problema della Pa, cioè il fatto che “le ultime riforme sono state fatte sempre per regolamentare il rapporto tra lo Stato-pagatore e il suo personale. Ma non è mai stato messo all’ordine del giorno il problema vero: il rapporto tra popolo e amministrazione”.
Professore, eppure lo sforzo di premiare il merito dovrebbe andare proprio nella direzione di dare un servizio migliore.
Dire che saranno i contratti a regolare i rapporti di lavoro potrà certamente offrire una maggiore articolazione di premi e responsabilità. Ma è un’altra cosa: la definizione dei contratti resta nell’ambito di una logica di dialogo tra il potere pubblico e il suo personale. Non c’entra nulla con il problema del rapporto con i cittadini: non credo che possa cambiare radicalmente quella questione.
Neppure la stretta sulle sanzioni per evidenti casi di inefficienze?
Vedremo se avrà effetti. Saremo qualunquisti, ma rischiamo di avere già la risposta: è molto difficile che una stretta delle giunture amministrative, disciplinari o sindacali possa cambiare le cose. Una cosa è fare una legge, una cosa è vedere che i dirigenti pubblici inizieranno a licenziare o sanzionare i loro collaboratori inefficienti: se sarà così, sarà stato fatto un passo giusto. Ma aspettiamo di vedere, sennò sarà stato solo un annncio.
Come è visto oggi il dipendente pubblico dagli occhi dell’italiano medio?
Di cosa faccia il dipendente pubblico, onestamente, al cittadino italiano interessa poco. Quando si arrabbia per gli scandali che talvolta emergono è perché si parla di eventi da codice penale, ma non certo di normale amministrazione. Il problema è che la Pa ha perso il ruolo di giuntura intermedia tra potere e popolo.
Si spieghi.
La macchina pubblica è nata sotto una stella fondamentale: il primato dell’atto amministrativo. Originariamente l’amministratore non aveva un problema di servizio al cittadino, tantomeno di legame con la politica. La correttezza dell’atto era il discrimine per tutto, fino agli anni Sessanta. E tutta la classe dirigente della Pa si è formata su quella concezione e su quello ha fatto carriera. Poi si è pensato che l’amministratore pubblico potesse fare il manager: non solo compilare gli atti per il trasferimento degli insegnanti, ad esempio, ma anche determinare le politiche scolastiche. La dimensione politica è entrata nella Pa, portando un cambiamento traumatico. Si è creata una frattura tra un amministratore che si riteneva manager e una realtà di settore, quotidiana, basata su aspettative diverse. La separazione tra una realtà micro (fatta di atti) e una macro (i manager) ha aumentato il distacco: ormai non si sa neppure più cosa faccia una determinata amministrazione. E’ tutto più ottuso e vago e intanto si è persa la funzione tradizionale di giuntura tra potere e popolo.
La Pa è spesso citata per i casi negativi. Perché gli italiani faticano a solidarizzare con una categoria ampiamente “punita” dagli ultimi tagli, congelamenti salariali e via dicendo?
L’italiano medio, normalmente, si guadagna il pane giorno per giorno. Vale per l’artigiano, l’operaio, l’imprenditore, l’uomo dell’economia sommersa: tutti quanti. L’invidia verso chi è “garantito per tutta la vita”, con un ritmo quotidiano scandito, è ormai centenaria. Quando gli impiegati piemontesi hanno trovato nella nascente Italia i braccianti locali della mezzadria, hanno trovato gente dai futuri incerti. Ancora oggi la maggior parte di noi vive nel quotidiano e nell’incertezza. La parola “incertezza” è il vero fondale di riferimento di tutti noi. E se uno è più certo di me, faccio fatica a volergli bene. Malgrado gli impiegati pubblici siano stati sempre più sottoposti alla paura dell’incertezza, resta negli altri l’idea che il 27 del mese per loro lo stipendio arriva. Sedimentata da 170 anni, è difficile da cambiare.
Crede che il ruolo della Pa cambierà sensibilmente con le nuove tecnologie?
Tutti i mestieri che hanno un ruolo di mediazione avranno dei problemi con le nuove tecnologie: il digitale distrugge anche l’impiegato di banca. Nella Pa questa innovazione avrà lo stesso peso che ha in altri settori, immagino. Ma non tutta la Pa può esser considerata come la realtà dell’impiegato di banca: è vero che alcuni servizi di sportello si potranno disintermediare via web, ma ci sarà sempre un problema di potere. C’è sempre, nella dirigenza della Pa, un problema di potere e quel grammo di potere non può esser superato dalla digitalizzazione: questa può servire per decomprimere il personale ordinario, ma non modifica l’anima della Pa. Questa è il potere, che deve esser rivolto all’intermediazione tra governo e popolo. Se non si affronta questo problema non potrà che restare la visione decennale per la quale nella Pa si trovano “mangiapane a tradimento”.