Joan Didion, da “The white album” in La Repubblica, 28 VIII 2015.
“I DOORS, MISSIONARI DEL SESSO APOCALITTICO”
“I Doors erano i Norman Mailer della Top 40, missionari del sesso apocalittico. Break on Through, «apriti un varco», incitavano i loro versi, e Light My Fire, «accendi il mio fuoco», e: Come on baby, gonna take a little ride / Down, down by the ocean side/ Gonna get real close / Get real tight / Baby gonna drown tonight – Goin’ down, down, down”…
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Erano le sei o le sette di una sera d’ inizio primavera del 1968 ed ero seduta sul freddo pavimento di vinile di uno studio di registrazione sul Sunset Boulevard a guardare una band chiamata The Doors che registrava una traccia ritmica. Nell’ insieme non dedicavo molta attenzione agli interessi delle band di rock-and-roll (avevo già sentito parlare dell’ acido come di uno stadio di transizione e anche di Maharishi e persino dell’ Amore Universale, e dopo un po’ mi sembrava tutto un pastrocchio di cieli di marmellata) ma i Doors erano diversi, i Doors mi interessavano.
I Doors non sembravano affatto convinti che l’ amore fosse fratellanza e Kamasutra. La musica dei Doors affermava con insistenza che l’ amore era sesso e il sesso era morte e qui risiedeva la salvezza.
I Doors erano i Norman Mailer della Top 40, missionari del sesso apocalittico. Break on Through, «apriti un varco», incitavano i loro versi, e Light My Fire, «accendi il mio fuoco», e: Come on baby, gonna take a little ride / Down, down by the ocean side/ Gonna get real close / Get real tight / Baby gonna drown tonight – Goin’ down, down, down.
Quella sera del 1968 erano tutti riuniti in ansiosa simbiosi per incidere il loro terzo album, e lo studio era troppo freddo e le luci troppo forti e c’ erano masse di cavi e sfilze lampeggianti di minacciosi circuiti elettronici con cui i musicisti convivono senza problemi. C’ erano tre dei quattro Doors. C’ era un bassista preso in prestito da una band chiamata Clear Light. C’ erano il produttore e il fonico e il road manager e un paio di ragazze e un husky siberiano di nome Nikki con un occhio grigio e uno dorato.
C’ erano sacchetti di carta mezzi pieni di uova sode e fegatini di pollo e cheeseburger e bottiglie vuote di succo di mela e rosé della California. C’ erano tutto e tutti quelli di cui i Doors avevano bisogno per incidere il resto di quel terzo album eccetto una cosa, il quarto Door, il cantante Jim Morrison, un ventiquattrenne laureato alla Ucla che indossava pantaloni di vinile nero senza mutande e tendeva a suggerire una gamma di possibilità appena più in là di un patto suicida.
Era Morrison che aveva descritto i Doors come «politici erotici». Era Morrison che aveva descritto gli interessi del gruppo come «qualsiasi cosa abbia a che fare con rivolte, disordini, caos, attività che sembrano prive di senso». Era Morrison che era stato arrestato a Miami nel dicembre del 1967 per una performance indecente. Era Morrison che scriveva la maggior parte dei testi dei Doors, la cui caratteristica particolare era di riflettere o una paranoia ambigua o un’ insistenza tutt’ altro che ambigua su amore-morte come il massimo dello sballo.
Ed era Morrison che mancava. Erano Ray Manzarek e Krieger e Densmore che creavano il sound dei Doors, e forse erano Ray Manzarek e Krieger e Densmore che facevano preferire i Doors a tutte le altre band a diciassette su venti intervistati da American Bandstand , ma era Morrison che saliva sul palco con i suoi pantaloni di vinile neri senza mutande e proiettava l’ idea, ed era Morrison che stavano aspettando adesso.
«Ehi» fece il fonico. «Stavo ascoltando una stazione Fm mentre venivo qui, e hanno trasmesso tre canzoni dei Doors. Prima hanno messo Back Door Man poi Love Me Two Times e Light My Fire ». «Sì, l’ ho sentito » borbottò Densmore. «L’ ho sentito».
«Be’, che c’ è di male se qualcuno mette tre delle vostre canzoni?» «C’ è che il tipo le ha dedicate alla sua famiglia». «Ma va’, alla sua famiglia?» «Sì, alla famiglia. Davvero stupido».
Ray Manzarek era ingobbito sulla tastiera Gibson. «Pensi che Morrison tornerà?» chiese a nessuno in particolare. Nessuno rispose. «Allora, possiamo provare un po’ di voci?» chiese Manzarek. Il produttore stava lavorando con il nastro della traccia ritmica che avevano appena registrato. «Lo spero» disse, senza alzare lo sguardo. «Già» fece Manzarek. «Lo spero anch’ io».
Mi si era addormentata la gamba, ma non mi alzai; tensioni non meglio identificate sembravano rendere tutti catatonici in quella stanza. Il produttore riavvolse il nastro della traccia ritmica. Il fonico disse che voleva fare i suoi esercizi di respirazione profonda.
Manzarek mangiò un uovo sodo. «Tennyson ha creato un mantra dal proprio nome» disse al fonico. «Non so se diceva “Tennyson Tennyson Tennyson”, o “Alfred Alfred Alfred”, o “Alfred Lord Tennyson”, comunque sia lo ha fatto. Forse diceva solo “Lord Lord Lord”». «Forte» disse il bassista dei Clear Light. Era un amabile entusiasta, ma non certo un Door nello spirito. «Chissà cosa avrebbe detto Blake» rifletté Manzarek.
«Peccato che Morrison non sia qui. Morrison lo saprebbe». Ci volle un bel po’. Prima che Morrison arrivasse. Portava i suoi pantaloni neri di vinile, si sedette su un divano di pelle di fronte ai quattro grossi speaker e chiuse gli occhi.
L’ aspetto curioso dell’ arrivo di Morrison fu questo: nessuno ci fece caso. Robbie Krieger continuò a lavorare su un passaggio alla chitarra. John Densmore sintonizzò la sua batteria. Manzarek rimase seduto al mixer facendo roteare un cavatappi, mentre si faceva massaggiare le spalle da una ragazza. La ragazza non diede nemmeno un’ occhiata a Morrison, nonostante fosse in linea diretta con il suo sguardo.
Passò almeno un’ ora, e nessuno aveva ancora parlato con Morrison. Poi Morrison parlò a Manzarek. Parlò quasi in un sussurro, come se stesse strappando a forza le parole da un’ afasia invalidante. «Ci vuole un’ ora per West Covina» disse. «Ho pensato che forse dovremmo passarci la notte, dopo aver suonato». Manzarek posò il cavatappi. «Perché?» chiese. «Invece di tornare indietro». Manzarek si strinse nelle spalle.
«Veramente avevamo programmato di tornare indietro». «Be’, io invece pensavo che potremmo provare là». Manzarek non disse niente. «Potremmo organizzare le prove, c’ è un Holiday Inn proprio lì accanto». «Potremmo anche farlo» disse Manzarek.
«Oppure potremmo provare domenica in città». «Immagino di sì». Morrison s’ interruppe. «Ma il posto sarà pronto per le prove domenica?». Manzarek lo guardò per un po’. Poi disse: «No».
Contai le manopole sulla console elettronica. Ce n’ erano settantasei. Non sapevo a favore di chi si fosse concluso il dialogo, o se si fosse mai concluso. Robbie Krieger prese la sua chitarra e disse che gli serviva un pedale per la distorsione. Il produttore suggerì di farsene prestare uno dai Buffalo Springfield che stavano provando nello studio accanto. Krieger fece spallucce. Morrison si sedette di nuovo sul divano di pelle e si lasciò andare contro lo schienale. Accese un fiammifero.
Studiò la fiamma per un po’, poi molto lentamente, ma volutamente, l’ abbassò sulla patta dei pantaloni neri di vinile. Manzarek lo tenne d’ occhio. La ragazza che stava massaggiando le spalle di Manzarek non guardò nessuno. C’ era la sensazione che nessuno avrebbe lasciato la stanza, mai. Sarebbe passata qualche settimana prima che i Doors finissero di registrare quell’ album. Io non seguii la lavorazione fino alla fine