Giorgio Dell’Arti, Cinquantamila.it, Catalogo dei viventi 2015, scheda di Lorenzo Della Chiara (in Repubblica, 19 II 2016).
UMBERTO ECO
“Sono disperato per il fatto che ho ancora una posizione di rilievo all’Università, dirigo due collane editoriali, ho una rubrica su un settimanale e cose del genere. Perché qualcuno non mi ha ancora fatto fuori? Dove sono quelli che dovevano uccidermi almeno vent’anni fa come abbiamo fatto noi con i nostri padri?”.
“C’è della gente che è appassionata di alpinismo, altri di corse di cani, e io sono appassionato del Medioevo. La verità è che ho avuto un meraviglioso professore di filosofia al Liceo, Giacomo Marino, che aveva fatto una splendida lezione su san Tommaso, e san Tommaso mi era così rimasto impresso nella mente quando sono andato all’università. Poi all’epoca militavo nella Gioventù Cattolica; non è che questo mi abbia spinto a studiare Tommaso per ragioni ideologiche, che anzi mi rifacevo più a Emmanuel Mounier che a neotomisti come Maritain (con cui sono molto severo proprio in questa mia raccolta); ma è che frequentavo abbazie”.
“Sono un fallito. Da piccolo, prima volevo fare il bigliettaio del tram, perché avevano delle bellissime borse a dieci scomparti con mazzetti di biglietti di vario colore. Non come ora, che si entra nel metro infilando il biglietto in una macchinetta automatica. Un po’ più tardi avrei voluto diventare generale (sotto il fascismo, il modello era il guerriero) e invece, fatto il servizio militare, sono andato in congedo col grado di caporale maggiore di fanteria distrettuale”.
“Come se non bastasse, negli anni Sessanta ho collaborato a fondare il Comitato per il Disarmo atomico. Ma so che la mia vera ambizione sarebbe stata quella di fare il pianista di pianobar. Sino alle due o tre di notte, la sigaretta all’angolo delle labbra, un whisky, e via a suonare Smoke gets in your eyes e Time passing by. È andata proprio male. Beh, pazienza. Da piccolo volevo anche scrivere romanzi”.
“Come mai a un certo punto, improvvisamente, ho scritto il mio primo romanzo? Sono stufo di sentirmelo domandare e ogni volta ho dato una risposta diversa (tutte ovviamente false). Diciamo che l’ho fatto perché me ne era venuta la voglia, e se questa non le pare una buona ragione, allora non capisce niente di letteratura. Insomma, l’ho scritto e basta. E quindi ho vendicato la mia infanzia di romanziere incompiuto”.
“Sono stato il primo a scrivere seriamente di fumetti. Ma che i miei romanzi dovessero diventare prodotti accessibili alle masse non mi era mai passato per la testa”.
“In Rai entrai per caso. Durante l’estate avevo finito la tesi, ma non mi ero ancora laureato perché era settembre, troppo presto per la sessione di laurea. Era ancora aperto il bando di un concorso per telecronisti e un tale della radio lo segnalò a me, a Furio Colombo, a Gianni Vattimo e a Michele Straniero. Ricordo che tutti rispondemmo che non ce ne importava nulla di diventare telecronisti, ma ci fu fatto osservare che era un modo per entrare in Rai. Ci presentammo. Prova scritta di un articolo giornalistico, e poi mi trovo in uno studio buio con una sola piccola luce, e voci misteriose che venivano dall’alto. Mi chiesero come avrei organizzato una trasmissione televisiva di poesia. Io di televisione non ne avevo quasi mai vista, salvo un dieci minuti in qualche bar, quindi lavorai di fantasia”.
“Quello che mi affascina nello scrivere un romanzo è passare, come mi è capitato sinora, minimo sei anni e massimo otto a cercare fonti e a scoprire aspetti di un mondo lontano. Se dovessi scrivere una storia d’amore che ha luogo nel presente, non avrei bisogno di fare alcuna ricerca e troverei la cosa estremamente deludente, per cui in sostanza scrivo romanzi storici perché mi diverte di più”.
“Un giorno incontrammo un corteo socialista e Umberto mi diede una lezione di lotta di classe, rivoluzionaria più che riformista: non bisogna aiutare l’operaio a spingere il carro, meglio che capisca quanto è sfruttato; solo allora si ribellerà. La cosa mi colpì: io ero stata educata dalle salesiane di Maria Ausiliatrice, sapevo che lui veniva dall’Azione cattolica, non lo pensavo così. Mi faceva leggere Moravia e Nabokov. Ma quando mia madre mi trovò in camera La noia e Lolita si infuriò e insistette perché lo lasciassi. Allora lui le scrisse una lettera molto bella, per dirle che era importante per me leggere tutti i libri, anche quelli. Finì perché non è facile essere la donna di un genio. E Umberto già allora era geniale; anche troppo, per me. Mi sentivo inadeguata, non abbastanza colta, non alla sua altezza» [Enza Sampò]