Francesco Finocchiaro, Corriere Etneo, 5 VI 2022
EDIPO RE A SIRACUSA, NOI CHE ASPETTIAMO GLI ORACOLI DOBBIAMO COSTRUIRE IL NOSTRO FUTURO
Robert Carsen (per la prima volta in Sicilia) firma la regia dell’Edipo Re di Sofocle per le rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, con traduzione di Francesco Morosi e scene di Radu Boruzescu
Il testo è asciutto, essenziale, come la scenografia. Gli attori e il coro sono silhouette parlanti che fluttuano tra l’orchestra, la scena, e il parodo fino ai confini della città di Tebe, quella cavea di pietra scavata nella roccia.
Edipo è l’eroe che sconfigge la Sfinge, regna su Tebe, sposa Giocasta che genera la sua discendenza. Ma nello stesso tempo è l’uomo maledetto che uccide il padre Laio, giace sul letto nuziale con la madre e genera figli-fratelli. Non è un Dio è solo un uomo che vuole la verità a tutti i costi e per questo paga con la cecità e l’esilio.
Sofocle ci presenta il conflitto tra una religiosità arcaica dal carattere magico – fatta di oracoli e di Dei – e la forza della ragione umana, capace di sconfiggere ogni mostruosità. Un dilemma antico, dove religione e ragione si contrappongono all’infinito. Da una parte l’uomo vittima del fato, del destino, degli Dei e dall’altra il suo desiderio di governare il sentiero della sua esistenza.
Ma la tragedia ci propone anche altro come la fragilità delle nostre certezze, la consapevolezza che nulla è per sempre. La condizione di precaria consistenza di ogni status. Edipo è un re, lo diventa per meriti, costruisce la sua ricchezza, vive in un palazzo e governa un popolo ma all’improvviso perde ogni cosa, scivola nelle profondità del dolore, si perde e perde ogni certezza, per inseguire una verità che pensava di “vedere” ma che solo con la cecità potrà comprendere pienamente. Il futuro che ogni uomo pensa per sé, sfugge al suo controllo. Per Edipo, la Sfinge e l’oracolo sono l’alfa e l’omega.
La città è il luogo della tragedia; il palazzo del re di Tebe è l’oggetto che si specchia con la cavea del teatro; una cavea riflessa che accoglie da una parte la stirpe eletta e dall’altra il popolo che assiste alle metamorfosi della storia. La scenografia riprende alcune esperienze di una letteratura consolidata, riduce ogni forma all’essenza. Usa la scala nella sua forma monumentale come dispositivo allegorico, un luogo che i protagonisti attraversano e abitano. Dal palazzo verso l’agorà, dall’agorà verso il palazzo; la scala raccorda le parti e le rende un unicum. La luce – quella di Apollo (naturale) e quella di Efeso (artificiale) – modellano gli attori e il coro, allungandone le ombre.
Le ombre della stirpe reale – Edipo, Creonte e Giocasta – sono geometrie spezzettate, frattali, forme innaturali che disegnano figure originali sulla scalinata monolitica, mentre le ombre di tutti – il capo coro, la corifea, Tiresia, i messaggeri, il servo e il coro dei tebani – sono lunghe, nette, precise, orientate e sovrapposte. Il coro è puntiforme, materico, fluido, metamorfico, plastico e topologico. Per un istante occupa il basamento della scalinata per poi polverizzarsi. Nero, grigio, scuro, come le vesti che indossano i suoi componenti.
Giocasta è bianca, come una madre-sposa che immerge – dopo lo svelamento della verità, nascosta inconsapevolmente – le sue stoffe nel sangue. Edipo invece si spoglia di ogni veste per mostrare la sua nudità essenziale segnata dal sangue dei suoi occhi che vedono per l’ultima volta la luce di una verità finta, ruscellando sul suo viso. Edipo, come Tiresia, vede attraverso la cecità.
Sullo sfondo, oltre la scala-palazzo c’è la natura, una cornice di alberi svettati e sempre verdi come colonne che reggono il cielo. La scenografia è completa – pur essendo scarna – racconta una città fatta di limiti e perimetri, abitata dagli uomini a dagli Dei. Il cielo che, piano piano, diventa sempre più terso fino a diventare notte è la cornice del teatro, un mantello celeste abitato dagli dei. Lo spazio della scena straripa oltre le sue geometrie convenzionali e diventa paesaggio, metaverso, cavo e scultoreo, poroso e polverizzato, pietra curva e retta. Figura e sfondo tra artificio e natura, tra umanità e divinità dell’Olimpo che mai appaiono sotto forma umana ma comunque presenti nella storia, persino invadenti.
L’opera è maestosa, emozionante, terrificante. Il destino di Laio, di Giocasta, di Edipo e delle sue figlie è sconvolgente. Paura, disorientamento ma nello stesso rigore, ricerca ostinata della verità. Quella verità che tutti intuiscono ma che Edipo ricompone in forma unitaria. Ogni personaggio possiede una parte della storia, sconnessa e disallineata ma il re che ha sconfitto con la ragione e l’arguzia la terrificante Sfinge – essere zoomorfo – riesce a ricostruire una narrazione unitaria e precisa che porta alla pazzia.
Edipo re è un’opera attualissima, contiene gli elementi essenziali del nostro tempo, compresa la pandemia che mette a dura prova la nostra esistenza sociale. Il contrasto tra superstizione e scienza, l’esigenza dell’unitarietà della storia contro ogni frammentarietà. Chiunque crede di essere sulla loggia del palazzo reale – per sempre – rischia di scivolare nella drammaticità dell’esilio. Chiunque crede nella solidità della mente umana deve fare i conti con il fato, l’oracolo, il trascendente. Eludere questa dimensione bivalente ci porta alla pazzia, all’oscurità. L’uomo è intelligenza e mistero, spiritualità e materialità, idealismo e realismo. Pensare di poter contare solo su una delle due forze in campo, significa avviarsi alla tragedia.
Noi chi siamo? Ma soprattutto cosa vogliamo essere? Restare in attesa degli oracoli o diventare costruttori di futuro? Ma nulla può esistere senza la consapevolezza della complessità del cosmo che tutto comprende. La città – recinto poroso – rimane comunque il teatro dell’abitare dell’uomo e Sofocle lo esplora universalmente e profeticamente. «Ognuno di noi è Edipo. Egli crede di sapere chi è, di conoscere chi sono sua madre e suo padre. Ma, come lui, nessuno di noi sa chi è veramente. E passiamo tutta la vita a cercare di scoprirlo» (Robert Carsen nell’intervista di Laura Zangarini per La Lettura del 15 maggio 2022).
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Nella foto: Franco Citti in “Edipo re” di Pier Paolo Pasolini, 1967 [Nota dello Studio]