Joshua Nicolosi, Sicilian Post, 14 II 2021
SCIASCIA, ORWELL E IL POTERE DELLE FAVOLE
1950: muore l’autore de “La fattoria degli animali”. Nello stesso anno, lo scrittore siciliano, che ne aveva pianto la scomparsa sui giornali, ne raccoglie il testimone, utilizzando il racconto fantastico per denunciare non soltanto i crimini delle dittature, ma per metterci in guardia che le nostre fragilità possono farle rinascere.
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Nessuno combatte le menzogne del potere come un bambino. La purezza che la sua età e i suoi sogni si portano in dote è da sempre l’arma più temuta dai regimi passati e presenti. Non è un caso che, fumetti, filastrocche e favole abbiano spesso raccontato con impietosa sincerità ciò che persino la grande letteratura faceva colpevolmente fatica a vedere. Lo sapeva bene Leonardo Sciascia, autore burbero e serioso di gialli e saggi nell’immaginario collettivo, che, invece, proprio con una raccolta di favole diede avvio alla propria carriera da narratore. All’ombra di un illustre precedente, del resto, il nostro conterraneo aveva maturato quella consapevolezza morale e civile che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua vita, all’insegna dell’eresia e dell’inflessibilità: quel George Orwell che, prima di dare alla luce 1984, aveva nascosto tra le pieghe del suo La fattoria degli animali (1945) una critica spietata alla Russia stalinista. Dello scrittore inglese, anzi, Sciascia fu quasi un erede spirituale: lo testimonia un articolo del 1950 apparso sul giornale La prova come omaggio al collega scomparso da qualche mese. Nello stesso anno, sulle colonne della medesima testata, apparve La Sicilia, il suo cuore. Favole della dittatura: ventisette dissacranti bozzetti – con gli animali a recitare il ruolo di protagonisti – che si aprivano proprio con una citazione orwelliana.
«C’era una luna grande; e il cane dell’ortolano e il coniglio, divisi dal filo spinato, quietamente parlamentarono. Disse il coniglio: “Gli ortaggi tu non li mangi; il padrone ti tratta a crusca e calci. La notte potresti serenamente dormire, lasciarmi un po’ in pace tra le verdure e i meloni. Che tu mi faccia paura, non vuol dire che la tua condizione sia migliore della mia. Dovremmo riconoscerci fratelli”. E il cane lo ascoltava, pigramente disteso, e il muso sulle zampe. E poi: “Quello che tu dici è vero; ma per me non c’è niente che valga il gusto di farti paura”».
Grottesco e caricaturale, pur mantenendo la consueta concisione linguistica che catturò anche gli entusiasmi di Pier Paolo Pasolini: è lo stile che Sciascia si diletta ad utilizzare nel suo corrosivo attacco ad ogni forma di prepotenza, di predominio. Anche a quelle apparentemente innocenti, costituzionalizzate. Perché, se è vero che, a differenza di Orwell, lo scrittore di Racalmuto ha già alle spalle gli scempi compiuti dai totalitarismi europei, non altrettanto può dirsi dei segni impressi sulle coscienze ancora disorientate. Lo Sciascia di carattere favolistico non si pone soltanto la missione di stigmatizzare gli orrori passati, ma di denunciarne le propaggini, di portare alla luce quei sentimenti di odio e di intransigenza confinati nei sotterranei dell’anima ma non per questo meno pericolosi. Non vengono risparmiate, dal suo occhio clinico ed impietoso, né le ambigue manovre di palazzo dei primi anni della Repubblica né le velleità politiche di una Chiesa che, anzi, aveva fornito materiale ideologico e culturale all’esperienza fascista. È la ricerca sfrenata del consenso la piaga che Sciascia individua: un’ossessione che, fuori dalla metafora del cane e del coniglio, si traduce in rincorsa all’approvazione prima e in legittimazione all’esercizio arbitrario del potere poi. Gli uomini, come cani fin troppo fedeli che accettano passivamente i maltrattamenti del padrone, hanno bisogno di appartenere, di sentirsi coinvolti in un progetto tanto fittizio quanto capace di illuderli. Ma, soprattutto, di essere padroni a loro volta. Non può non tornare alla mente il motto orwelliano secondo cui «tutti sono uguali, ma qualcuno lo è più di altri». Un motto che Sciascia fece suo, e attraverso il quale giunse alla consapevolezza che padroni e vinti ci saranno sempre, ciclicamente, e che ogni rivoluzione conduce semplicemente ad uno scambio di ruolo.
«Da anni il cane, quando pieno di noia si acculava ai piedi del padrone, amava la fresca sensazione che le scarpe gli davano: il padrone usava sempre una buona vernice alla trementina. Così, lentamente, il pensiero dei calci ricevuti e da ricevere, si fuse in quell’odore gradevole e acquistò una certa voluttà. La pedata fu soltanto un odore».
E, allora, continuiamo a leggere le favole. A leggere di mondi capovolti e improbabili, che sembrano scoraggiare i lettori proponendo situazioni discorsi lontani dal nostro tempo ma che, piuttosto, ci inchiodano alla nostre responsabilità. Nell’esagerazione, ci invita a considerare Sciascia, la verità è libera di muoversi, di urlare, di lottare. La finzione è uno specchio, dove tutto si riflette per quello che è. Non sarà forse, quasi trent’anni dopo, lo stesso principio con cui Candido Munafò rifiuterà di definirsi figlio di qualcuno se non di sé stesso? I padroni, e le loro promesse, vanno e vengono. Ma la libertà, una volta venduta al miglior offerente, difficilmente ci viene restituita. In fondo, non succede neanche nelle favole.