Stefano Cingolani, Il Foglio, 25 VII 2014.
CAPITALISMO ITALIANO; I SUCCESSI E I FALLIMENTI DI UNA SUCCESSIONE IMPOSSIBILE.
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Che cosa succede se la prole spreca i suoi talenti, se la sindrome dei Buddenbrook s’impadronisce della discendenza, se il seme del capitale viene disperso nell’oceano globale? Dagli Olivetti ai Merloni, è sempre la stessa storia, ma non è la fine del capitalismo. I gruppi che vogliono competere devono affidarsi a un professionista della gestione. Le piccole aziende guidate da innovatori di prima generazione vanno aiutate a crescere e mettersi insieme, quelle medie devono essere instradate verso la Borsa e sottratte alla dipendenza sempre più tirannica delle banche. Ma i genitori debbono uscire di scena non appena i figli hanno imparato a volare.
Bruno Visentini la chiamava “forza virile dell’imprenditore” e la voleva sempre al comando anche nelle grandi imprese. Era il 1987 e imperversava la battaglia tra funzionari del capitale che volevano diventare capitalisti (come Mario Schimberni alla Montedison sulle orme del suo predecessore Eugenio Cefis) tra uomini nuovi che sfidavano il vecchio establishment come Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi, Raul Gardini. Altri tempi, l’ultima epoca d’oro del capitalismo privato mentre il capitalismo di stato scoppiava d’indigestione.
Parlava bene il Visentini che, tra lezioni universitarie, sedute in Parlamento, decreti fiscali (come ministro delle Finanze) e anelli wagneriani a Bayreuth, aveva presieduto per vent’anni la Olivetti dopo la ritirata della famiglia. Sapeva, dunque, cosa succede se la prole spreca i suoi talenti, se la sindrome dei Buddenbrook s’impadronisce dell’intera discendenza, se il seme del capitale viene disperso nell’oceano globale. Dagli Olivetti ai Merloni, è sempre la stessa storia, ma non è la fine del capitalismo.
E’ presto per cantare il de profundis come fa la Repubblica. Quel che avviene sotto i nostri occhi è il faticoso, contraddittorio, adattamento dell’economica italiana alle nuove condizioni del mercato mondiale e ai nuovi rapporti di forza in occidente.
Questa metamorfosi ha portato alla ribalta un modello ancora in nuce. E’ quello che Marco Fortis chiama “le nicchie di eccellenza” e si regge sulle gambe del “quarto capitalismo” analizzato da Fulvio Coltorti fin da quando guidava l’ufficio studi di Mediobanca. Si può definire modello perché affonda le sue radici nella storia manifatturiera dell’Italia e ormai ha caratteristiche ben definite e in qualche modo strutturate.
Anche se, nonostante la Grande Recessione, è riuscito a difendere la quota dell’Italia nel commercio internazionale, resta ancora nel bozzolo perché non ha trovato la dimensione sistemica che lo può far decollare. Sarebbe davvero interessante se, invece di lamentarsi sui Merloni perduti, si cominciasse davvero un dibattito su come far sì che nuovi Merloni vincano la loro guerra di mercato.
E’ una dynasty di provincia quella della famiglia di industriali marchigiani che hanno cominciato nel secondo Dopoguerra facendo caldaie; è la dinasty dei “metalmezzadri”, come l’economista Giorgio Fuà chiamava gli artigiani e piccoli industriali nati dall’agricoltura mezzadrile che hanno trasformato la costa Adriatica in una fabbrica diffusa lungo centinaia di chilometri dall’Abruzzo al Veneto.
La famiglia si era già divisa alla morte del fondatore Aristide: i tre figli avevano preso ciascuno un ramo dell’azienda, gli elettrodomestici erano andati a Vittorio che, da Ariston a Indesit ha costruito un gruppo multinazionale.
La Grande Recessione che ha colpito frigo e lavatrici forse ancor più delle automobili, la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, la esigenza di crescere e investire capitali su capitali, più il calo del desiderio, sì di quella passione che spinge il “virile” industriale a reinventare sempre se stesso, ebbene la combinazione di questi fattori ha indotto anche i figli di Vittorio, da tempo gravemente malato, a mollare. Hanno venduto a un ottimo acquirente come l’americana Whirlpool che spende 768 milioni di euro per aumentare la sua presenza in Italia. Solo Maria Paola, ormai in politica prima col Pd e adesso senatrice eletta con la lista Monti, si tiene una piccola quota, per affezione.
E i Merloni non sono gli unici, anzi. Il capitalismo italiano non sta morendo, ma il capitalismo delle grandi famiglie, quello sì, è arrivato al punto di non ritorno. Degli imprenditori che hanno retto la Confindustria nei ruggenti anni Ottanta non è rimasto più nessuno.
Luigi Lucchini si è spento un anno fa, all’età di 94 anni, ricevendo l’elogio della Cgil verso un “interlocutore aspro, ma rispettoso”; però aveva già ceduto le armi di fronte all’offensiva dei russi di Severstal. Il re del tondino era ricco e felice finché non aveva deciso di fare il passo più lungo della gamba, partecipando al banchetto delle privatizzazioni. Dello spezzatino Italsider, a lui era toccato lo stabilimento di Piombino, ma gli acciai speciali si sono rivelati un business mangiasoldi e nel 2005 il vecchio “padron delle ferriere” cedeva i due terzi del gruppo, poi nel 2010 anche l’ultimo pacchetto del 20 per cento.
Il suo successore in Confindustria, Sergio Pininfarina, il grande carrozziere che aveva firmato i modelli più belli quando le auto italiane (soprattutto l’Alfa) facevano levare il cappello al vecchio Henry Ford e la Volkswagen le copiava, è morto nel 2012 ma aveva già lasciato le redini al figlio. Andrea aveva la tempra dell’innovatore (Business Week lo aveva inserito tra le 25 star europee), sennonché nel 2008 viene ucciso in un incidente stradale. L’azienda passa al fratello Paolo, ma non regge. Nel 2011 chiude anche l’ultimo stabilimento. Adesso, nelle mani del finanziere francese Vincent Bolloré, progetta vetture elettriche.