FREESPACE! L’ARCHITETTURA NELL’EPOCA DELLO SHARING – A VENEZIA AL VIA LA BIENNALE
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(Antonio Riello, Dagospia 28 V 2018)
Le altre declinazioni della Biennale di Venezia (Arti Visive, Cinema, Danza, Teatro) hanno il compito di trattare qualcosa che può essere visto direttamente. Per l’Architettura è diverso. Si parla, si discute, si spacciano idee (giuste o sbagliate), si mostrano rendering e modellini. Si propongono architetture possibili oppure si esplora la Storia dell’Architettura, ma in genere l’architettura fisicamente palpabile e visitabile non c’è. É una Biennale questa basata su una esistenza che in fondo potremmo definire virtuale e quindi destinata, inevitabilmente, agli specialisti del settore.
Il tema quest’anno è “FreeSpace” e lo si può immaginare come lo spazio urbano del tempo libero, del gioco, dell’ironia e soprattutto della socialità. Si sa, comunque, che in questi casi si tratta piuttosto di spunti, anche abbastanza liberi, che di temi veri e propri. Nomi importanti ce ne sono parecchi. Peter Zumthor, Mario Botta, David Chipperfield per citarne qualcuno.
In giro molta tecnologia, soprattutto stampa in 3D di modelli e modellini. Però poca inventiva originale e soprattutto (grave !) quasi nessuno ha dedicato qualche seria idea/proposta per i ragazzini che una volta giocavano per le strade delle città e oggi sono sempre più spesso relegati in casa da un ambiente ostile e pericoloso. Come se le città fossero abitate solo da anziani intellettuali appassionati di urbanistica che leggono il Financial Times….
A dire il vero sono abbastanza moscette pure le feste che costellano le sere veneziane nei giorni dell’apertura.
La rassegna si dipana, come sempre, tra i Giardini, dove ci sono i padiglioni storici e l’Arsenale che ospita le Corderie e i padiglioni di più recente costituzione.
Il Padiglione Centrale dei Giardini (l’ex Padiglione Italia) custodisce la visione delle curatrici Yvonne Farrell e Shelley McNamara: esperienza densa e dotta ma un po’ criptica (e faticosa) per i “non addetti ai lavori”.
Notevole quello del Belgio con un progetto che ripensa architettonicamente le strutture Unione Europea. Un timing perfetto….
La Svizzera fa una cosetta ben fatta e quasi spiritosa sbagliando tutte le norme ergonomiche che sottendono ad una normale costruzione. Ha vinto il premio come miglior padiglione.
Molto indovinato e concettuale quello della Gran Bretagna (curato da Caruso St John e Marcus Taylor) che trasforma il tetto della struttura in un grande spazio pubblico con vista mozzafiato: ritrovi, feste, aperitivi e naturalmente il tè delle cinque. Anche questo vince un premio (meritato).
Importante e interessante la proposta di Israele sulla condivisione inter religiosa di uno stesso spazio a Hebron.
Elegante e nostalgica la Francia. Ma senza guizzi ed emozione.
Una segnalazione va fatta alla Corea del Sud per il gadget più bello, intelligente e ricercato della Biennale: una borsona/zainetto in materiali di riciclo che veniva centellinata ai giornalisti. Sembra che qualcuna sia già finita su eBay. Invece, fuori del suo imponente edificio, la Germania vende imperterrita le sue borse in tela, piuttosto banalotte e fuori moda, a ben 5 euro l’una.
Nella zona dell’Arsenale invece sono molto belli ed evocativi i padiglioni del Peru’ e dell’Argentina. Solenne e intelligente l’installazione pensata dall’Indonesia. Invece l’Italia, vista da qui, sembra un paese che ha subito un golpe da parte del Ministero del Turismo: una gigantesca fiera promozionale per agguantare turisti e viaggiatori. Forse una proposta utile in termini di bilancio (ed elegante nella forma, in verità) ma allo stesso tempo ingenuamente maldestra e priva di fantasia.
Tra i progetti esterni la mostra “Memphis” a palazzo Cavalli Franchetti, tra nostalgia e memoria, ci ricorda quanto bello fosse il design italiano degli anni ottanta.
Il vero evento culturale e mondano è stato senza dubbio il progetto del nuovo Padiglione del Vaticano: “Vatican Chapels” (il Latino di Santa Madre Chiesa sembra aver lasciato il posto alla lingua Inglese…). Voluto dal Cardinal Ravasi e curato da Francesco Dal Co e Micol Forti questa idea vede ben dieci cappelle (opportunamente benedette e consacrate) sparse nel parco della Fondazione Cini all’Isola di San Giorgio Maggiore, un piccolo paradiso veneziano intatto e pressochè sconosciuto.
Ogni chiesetta è stata progettata da un architetto di grido: Andrew Berman, Francesco Cellini, Javier Corvalán, Ricardo Flores & Eva Prats, Norman Foster, Terunobu Fujimori, Dean Godsell, Carla Jucaba, Francesco Maganni & Traudy Pelzel, Smiljan Radic e Eduardo Souto de Moura.
Finalmente dell’Architettura da potere toccare e dove (addirittura !) si può perfino entrare. Il lavoro di Norman Foster e quello di Terunobu Fujimori sono semplicemente straordinari. La brasiliana Carla Jucaba ha pensato ad una geniale chiesa senza pareti con solo le panche ad una grande croce/altare in acciaio lucidato (non più classicamente la Natura che entra nell’edificio ma l’edificio stesso che si “scioglie” nell’ambiente circostante). Magnifica anche l’opera di Magnani & Pelzel. Ma, complice forse il luogo incantevole, ogni singola cappella ha indubbiamente il suo bel perchè. Spiace solo che a fine Biennale saranno tutte smontate e portate da qualche altra parte.
Un capolavoro assoluto di marketing culturale. Non ce n’è per nessuno. Perfino l’ambita inaugurazione della mostra realizzata dalla Fondazione Prada (e relativo party mondano per VIP di una certa caratura) quest’anno è passata in secondo ordine. Malgrado la mostra, curata da Germano Celant, sia ineccepibile è stata, si potrebbe dire, quasi snobbata. Tutti quelli che contano o sono molto ambiziosi hanno fatto a gomitate solo per cenare con Cardinali e Monsignori. Le teocrazie sembrano avere proprio il loro bel revival. Per la cronaca: cena peraltro senza eccessi e lussi, quasi in stile seminario. In linea con i tempi, ovviamente.
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(Pierluigi Panza, Corriere della sera, 24 V 2018)
Lo spazio urbano è un reddito di cittadinanza universale. Nessuno è così povero da non poterne fruire e ciononostante lo si percepisce nella distrazione. Uno guida, cammina, telefona e non si accorge che un gratuito panorama, costruito dall’ uomo, gli viene offerto.
Ma proprio nell’ età dello sharing la qualità di questi spazi condivisi è precipitata: «Maledetti architetti», avrebbe sentenziato Tom Wolfe! Da qui il tema della XVI Biennale di architettura (da sabato 26 maggio sino al 25 novembre) intitolata Freespace, diretta dalle dublinesi Grafton (Yvonne Farrell e Shelley McNamara), note per la nuova sede dell’ università Bocconi.
La loro mostra al Padiglione centrale dei Giardini e all’ Arsenale espone lavori di 71 gruppi di architetti, designer e urbanisti ai quali si aggiungono quelli dei 64 padiglioni nazionali, che mai come quest’ anno si sono attenuti al tema. Il presidente della Biennale, Paolo Baratta conta di superare i 280 mila visitatori della precedente rassegna Reporting from the front curata da Alejandro Aravena.
La Biennale di David Chipperfield cercava un Common ground dell’ architettura; Aravena metteva a nudo la distanza tra domanda e offerta nella produzione edilizia, le Grafton presentano un ordinato e onesto catalogo, pedagogico e volutamente antispettacolare, di cosa e come sono oggi nel mondo gli spazi al di fuori della proprietà privata e di come potrebbero essere. Hanno realizzato l’esposizione – che è, a sua volta, uno spazio a disposizione (ci si può persino sedere!) – seguendo un metodo partecipativo. I progetti selezionati hanno risposto al manifesto Freespace lanciato nel giugno del 2017 che, invitava a trovare «progetti di generosità», «un’ agenda della qualità», «spazio come dono»…
Spazio libero di qualità vuol dire, per le Grafton, declinare il passato nel futuro e fare interagire interno ed esterno. Si parte dal Padiglione centrale con le piastrelle di un’ anonima factory di Liverpool sotto la cupola di Galileo Chini, poi con la Città del via vai («luogo dove ricostruire l’ accoglienza ecc»), l’ intervento di Odile Decq all’ Opera di Parigi (spazi moltiplicati con superfici riflettenti), un’ edicola quasi religiosa come omaggio a Luigi Caccia Dominioni e infine Humanhattan, grandioso studio su come costruire una cintura che protegga dalle catastrofi naturali New York entro il 2050. Nel tragitto anche la riscoperta di una finestra ovoidale di Carlo Scarpa sepolta da precedenti intonaci (sarà tra gli angoli più fotografati) che permette di vedere il «di fuori» da parte a parte, con in mezzo i progetti di Zumthor, primo tra i numerosissimi architetti elvetici in mostra.
Superate le corde d’ ingresso, le corderie dell’ Arsenale si presentano invece come una promenade di 300 metri (862 piedi veneti) di colonne allineate: una grandiosa basilica a spazio libero. Gli allestimenti sono solo ordinati ai lati mentre sul soffitto sfilano le «parole chiave» del manifesto. Si va dai progetti realizzati, come la trasformazione di una ex cooperativa operaia in Sala Beckett a Barcellona o come il Fuji Kindergarten dello studio Tezuka in Giappone, all’ utopia, come il progetto di Laura Peretti per «risanare» il Corviale, fino all’ utopia realizzata, come la biblioteca di Beidaihe definita la «più solitaria della Cina» pensata per 75 persone perché «irraggiungibile» e frequentata da 3.000 al giorno. Unica concessione alla società dello spettacolo la copertura a vela di bambù (l’ acciaio pulito del XXI secolo!) delle Gaggiandre realizzato da VTN Architects.
Alcuni padiglioni nazionali sono ingegnosi. La Svizzera destruttura l’ altezza degli spazi interni della casa (un gioco a 2,40 metri di altezza, occhio alla testa, voto 7,5); la Gran Bretagna fa salire per la prima volta sul tetto del padiglione lasciato completamente vuoto (trouvaille, voto 8,5); la Germania si accorge che il Muro di Berlino è durato 28 anni ed è stato abbattuto 28 anni fa e mette in scena testimonianze dai nuovi muri (matematico, voto 8); il Canada si autocita mostrando l’ intervento di restauro al padiglione realizzato nel ’58 dai BBPR (metapadiglione, voto 7); la Francia presenta un Gran Bazar e foto di pascolo libero in città (prima della Raggi, voto 7); gli Usa, in una Biennale America-free, sono ossessionati dalla catastrofe climatica (assillo Trump, voto 6), Israele è alle prese con la Cava dei Patriarchi di Hebron che diventa moschea o sinagoga a seconda della stagione liturgica (prosit, 7). Prima volta del Vaticano con le 10 cappelle nel bosco della Fondazione Cini ispirate a Gunnar Asplund e dell’ Arabia Saudita, spinta dal riformatore Mohammed bin Salman, con un progetto sui vuoti urbani. Da sempre, in Biennale, Spagna e Catalogna hanno spazi separati: non si escludono show a sorpresa.