Mauro Geraci, Dialoghi Mediterranei, 1 III 2022
“Avvicinàti amici… c’è Busacca!”. Appunti retrospettivi su una mostra
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A Taormina (Messina), nei locali dell’ex chiesa di Sant’Agostino annessi alla Biblioteca comunale, fino all’8 marzo 2022 [ed ora prorogata fino al 30 aprile] è possibile visitare “Avvicinàti amici… c’è Busacca! Mostra di cartelloni, fotografie e documenti del grande poeta-cantastorie siciliano Cicciu Busacca (1925-1989)“. Allestita per la prima volta nel 2019 a Roma, in occasione dei trent’anni dalla scomparsa, presso il Museo delle Civiltà – Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, in collaborazione con l’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi, la mostra ricapitola l’iter poetico e artistico del famoso cantastorie siciliano.
Questo articolo, nel presentarne i retroscena, i criteri espositivi, la selezione dei documenti e l’allestimento, vuol essere un appunto retrospettivo autoriflessivo da parte di chi, come me, la mostra ha progettato, curato e realizzato; come studioso ma anche interprete e continuatore della canzone narrativa dei cantastorie che ha lavorato in stretta collaborazione con Francesca Busacca, presidente della giovane Associazione Cantastorie Busacca di Paternò (Catania), molto attiva nel promuovere i saperi, la letteratura, lo spettacolo dei cantastorie, e con il supporto di Leoluca Cascio attento documentarista che ha messo gentilmente a disposizione parte della sua preziosa collezione. Carissimi amici e colleghi che qui tengo a elogiare e ringraziare di cuore per la competenza e l’amorevolezza con cui si sono dedicati a una mostra improntata al futuro più che al passato e che non si sarebbe potuta realizzare senza la straordinaria disponibilità del Comune di Taormina, del suo sindaco, amico e collega antropologo Mario Bolognari, come di Francesca Gullotta, eccezionale assessore alla cultura, che ringrazio ancora immensamente.
Il senso retrospettivo di questo articolo mi fa sprofondare, anzitutto, nei miei primi, infantili ricordi di Busacca. Con mio padre Giuseppe Geraci, negli anni Sessanta appassionato giornalista di musica e teatro al “Giornale di Sicilia” di Palermo, andavamo spesso a sentirlo in piazza o nei concerti, ricordo quello di Bivona (Agrigento) assieme a Rosa Balistreri o nei cine-teatri di Patti, Barcellona, Gioiosa Marea nel Messinese. Io avevo meno di dieci anni ed ero solo un piccolissimo ma già appassionatissimo spettatore di Busacca, di Rosa e di colui che poi diventerà il mio secondo padre, il mio maestro cantastorie Franco Trincale con cui ho condiviso tante iniziative e manifestazioni, conosciuto per la prima volta a otto anni in occasione del celebre festival Palermo Pop ‘70, in un gremitissimo Stadio Barbera dove, la sera, ricevette l’abbraccio solidale di Duke Ellington davanti a ottantamila studenti che protestavano contro la polizia che prima gli aveva spento il microfono durante la ballata “Nixon boia!” contro la guerra in Vietnam (Geraci 2020a: 4, Buonadonna 2020). Poi, per Busacca, il ricordo risale al 1976 in cui, sempre mio padre, già cronista al “Messaggero” di Roma, invitava me quattordicenne a piangere ancora con Cicciu Busacca la morte di Salvatore Scordo e degli altri minatori scomparsi a Marcinelle nel 1956, davanti allo schermo, mentre il cantastorie presentava ai telespettatori della trasmissione “Italia bella mostrati gentile. Viaggio attraverso il canto popolare italiano”, una delle più alte pagine della canzone narrativa mondiale, “Lu trenu di lu suli” (Buttitta I. 1963) scritto dal grande poeta dei cantastorie Ignazio Buttitta, tra i curatori dello stesso programma Rai.
Questi sono soltanto alcuni dei numerosi antecedenti per i quali, da grande e da antropologo culturale, mi sarei a lungo interrogato sullo storico sodalizio tra Busacca e Buttitta (Geraci 1997; 1998: 19-52; 2000) di cui interessantissime tracce restano nella mostra; come sul senso poetico e popolare del pianto del cantastorie (Geraci 2002), in un intenso, intensivo e immersivo percorso di studi che oggi mi ha condotto all’organizzazione della mostra romana e taorminese. Percorso che, negli anni, mi ha visto raccogliere e analizzare la vasta discografia e pubblicistica di Cicciu Busacca, entrare in contatto con gli studiosi dei cantastorie paternesi quali Antonino Buttitta (1957-59, 1963-64), Placido Sergi (1973) e Nino Tomasello (2002), stabilire un campo etnografico di ricerca con la sua famiglia, con gli altri importanti cantastorie di Paternò (Catania) tra cui soprattutto Vito Santangelo (2006) e il fratello stesso Nino Busacca, via via fino alle tante iniziative oggi intraprese con la nipote Francesca e la bell’associazione culturale cui ha dato vita. Tra queste, oltre alla mostra in oggetto, l’acquisizione della casa di Nino Busacca che, con opportuni restauri e adeguamenti, l’associazione vorrebbe adibire ad archivio e centro studi; e l’apposizione di una targa dedicata nel 2019 a Cicciu Busacca e a tutti gli altri cantastorie nella centrale Piazza Regina Elena di Paternò (detta “A Urna”, dalla piccola fonte d’acqua che in tempi remoti vi scorreva), laddove i cantastorie solevano esibirsi liberamente di fronte a un pubblico pronto ancora a riflettere sulla nostra storia come su quella degli altri, torcendone – diremmo col Buttitta di “Un seculu di storia” (1972: 43-53, 53) – il drammatico corso:
Cu camina calatu / torci a schina, / s’è populu / torci a storia.
Dunque, del cantastorie Busacca, la mostra espone: due chitarre, un amplificatore, un altoparlante da palco, il giradischi-radio appartenuto al fratello Nino, alcune riproduzioni dei suoi grandi cartelloni con le storie illustrate (quelli della celebre storia del bandito Salvatore Giuliano, de “L’emigranti in Girmania” come quello di “Spusaliziu di sangu”, realizzato dal sottoscritto sulla base dell’originale custodito assieme ad altri presso il Muciv di Roma), una gigantografia degli anni Sessanta che lo vede esibirsi proprio a Taormina nei pressi di Palazzo Corvaja, diversi libretti a stampa e fogli volanti come dischi e musicassette destinate alla vendita ma anche lettere d’ingaggio, permessi, denunce (ad esempio quella relativa sempre alla storia di Giuliano che avrebbe indotto i giovani alla ribellione), molti quaderni autografi di storie e ballate, numerosissime foto e locandine relative all’attività in Sicilia come al successivo accostamento al folk music revival e al teatro, specie a quello di Dario Fo e Giorgio Strehler.
Alcuni espositori ospitano poi la foltissima rassegna stampa raccolta e ordinata per temi e date dallo stesso cantastorie durante gli anni della sua lunga attività e che, pertanto, molto ci dice sui suoi stessi criteri autorappresentativi, per molti aspetti condivisi con altri cantastorie siciliani (Geraci 2008). Di essa fanno parte i prestigiosi articoli relativi all’ottenimento, con “La storia di Giovanni Accetta”. “L’innuccenti vinnicaturi”, del primo premio Trovatore d’Italia istituito nel 1957 nell’ambito della I Sagra nazionale dei cantastorie organizzata dall’Associazione Italiana Cantastorie (cfr. Geraci 1998: 126-134); quelli del ‘58 relativi alla tournée parigina con Buttitta; quelli che ci consentono di osservare le modifiche che Busacca s’è trovato ad apportare al suo modo di narrare, gesticolare, cantare, recitare al momento in cui, sul finire degli anni Sessanta, stabilitosi ormai a Como, venne chiamato a far parte del progetto teatrale di Dario Fo e Franca Rame.
Di questi come di altri passaggi artistici del cantastorie la mostra offre una vasta e inedita documentazione fotografica tratta dagli archivi dell’Associazione Cantastorie Busacca e da quella di Leoluca Cascio. Sul fondo della sala, in uno schermo appositamente collocato, i visitatori hanno anche la possibilità di vedere, ascoltare, riflettere su Cicciu Busacca che si racconta, che spiega le componenti tematiche, comunicative, conoscitive del suo lavoro di cantastorie, attraverso stralci tratti da “Il giullare in esilio”, lo straordinario, ampio documentario realizzato dalla Rai nel 1983 con la consulenza e la regia dello storico del teatro Giovanni Isgrò e di Diego Bonsangue.
Nel complesso si tratta di un ricco, articolato itinerario che, ancora una volta, rivela la dimensione globale, universale perseguita da Busacca e dai cantastorie in genere, dalle povere piazze bracciantili della Sicilia del secondo dopoguerra fino a quelle delle battaglie sindacali, dai circuiti operai e dell’emigrazione, fino alle crescenti lotte contro la mafia, al Sessantotto studentesco e a un folk music revival che, non soltanto in Italia, orientava la ripresa di alcuni ambiti della cosiddetta “canzone popolare” a diversi programmi politici di contestazione (Leydi 1972). Itinerario che, nelle varie fasi della sua attività, attesta il costante e autonomo impegno civile di Cicciu Busacca nella denuncia delle prepotenze domestiche, feudali, politiche, mafiose. Un impegno maturato anche attraverso i sodalizi poetici che egli seppe stringere col grande poeta-cantastorie Ignazio Buttitta – celebre il “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali” (1974: 105-144) sulla uccisione del sindacalista socialista avvenuta a Sciara (Palermo) nel 1955, come il già citato “Lu trenu di lu suli” sulla tragedia di Marcinelle accaduta nel ’56, che Buttitta scrisse espressamente per la voce di Busacca – come anche con importanti figure del panorama intellettuale del Novecento quali Carlo Levi e Dario Fo che affidò al cantastorie ruoli centrali in spettacoli popolari di successo quali “Mistero buffo”, “Ci ragiono e canto” e “La giullarata”.
Dal portone d’ingresso della prestigiosa ex chiesetta di Sant’Agostino oggi annessa alla centralissima Biblioteca comunale quale archivio del complesso agostiniano che, in questi mesi, ospita la mostra, due sono i percorsi, uniti e distinti, che danno vita a un intreccio espositivo che ci è parso particolarmente adatto a esplorare vari aspetti storico-antropologici di Busacca cantastorie. Il primo è quello che raccoglie ed espone i documenti per tipologie: dalla cartellonistica alle pareti alla discografia che attesta immediatamente (specie in una storia del bandito Giuliano pubblicata a Toronto nel 1962) l’amplissima diffusione della canzone narrativa di Busacca, in piazza, nei mercati, nelle fiere, nelle Feste dell’Unità, nei festival canzonettistici ma anche nelle più vaste reti di vendita di grandi case discografiche nazionali quali la Vik Rca, la Combo, i Dischi del Sole, negli spazi mediatici di radio e televisioni, nei circuiti del folk music revival e del teatro come in quelli dell’emigrazione cui si rivolge Busacca come poi Trincale e altri più giovani cantastorie (Geraci 2017; 2020b).
Una disposizione conoscitiva tutt’altro che locale, che riprende e contemporaneamente si rivolge a una piazza già allora e oggi più che mai «deterritorializzata» (Appadurai 2012), universale, di tutti, dove il cantastorie sollecita il confronto tra lingue e dialetti, saperi diversi, storie e lotte diverse. Apertura socioculturale, politica e conoscitiva sensibile ai contrasti poetici (come quello tra la morte e il miliardario presente in mostra) come alle doppie morali sollevate da ogni vicenda cantata, che ritorna in una rassegna stampa e in una pubblicistica che, alle siciliane quali quelle di Raddusa, Bagheria, Castelvetrano, Paternò alterna le piazze più distanti di Milano, Torino, Firenze come quelle di Ginevra, Marcinelle, Parigi, Bruxelles, Stoccarda, Vienna come di New York e Toronto. Un girovagare di piazza in piazza in cui Busacca riconferma l’importante ruolo di mediazione culturale svolto dai cantastorie sin dalla giullaria medievale. Una riflessione cantata che usa le scintille riflessive che scattano nei rapporti tra le potenzialità conoscitive insite nella scrittura, nella stampa, nella grafica cartellonistica come nell’oralità, nella recitazione, nella musica, nel canto, nel gesto (Goody 1981). Il tutto alla ricerca di verità che non si lasciano intimorire da omelie, ortodossie, verdetti o versioni stereotipate e accreditate della storia ma che, al contrario, Busacca verifica e arricchisce nella viva piazza assunta – ricorda ancora il Buttitta de “U rancuri (discorso ai feudatari)” – quale «cassa armonica che suona per tutti» (1972: 61-70).
Le chitarre, i cartelloni, i fogli volanti, i libretti (tra cui quelli tascabili gentilmente prestati da Leoluca Cascio) come le discografie e nastrografie, le lettere d’ingaggio quale quella del Teatro Piccolo di Milano, i permessi, i quaderni autografi, le foto e locandine dell’attività in Sicilia come del successivo accostamento al teatro e al folk music revival, ci conducono ancora a quella che Diego Carpitella (1961) definì come chiave di lettura delle poetiche dei cantastorie che prediligono collocazioni di mezzo: tra doppie morali, tra culture egemoniche e subalterne, dimensioni multimediali assieme orali, scritte, musicali, pittoriche, teatrali. Quelle, ancora, tra la mimesis, che vedono l’immedesimazione o la rappresentazione attoriale del cantastorie restituire al pubblico il pathos dei personaggi, e l’estraniamento critico (scepsis) con cui il cantastorie si fa riconoscere nella sua funzione di presentatore della storia, tramite sofisticati «effetti di estraniamento» (verfremdungseffekt) che già Bertolt Brecht, oltre che in Giovanni Boccaccio, apprezzò nei cantimpanca (bänkelsänger) della Germania medievale.
Il secondo criterio che, nel procedere della visita, s’intreccia al primo che abbiamo visto essere improntato alla tipologia documentaria, è quello biografico, che al contrario tende a raccontare simultaneamente, con la medesima selezione di documenti, la storia di vita del cantastorie Cicciu Busacca. Storia di vita che lo ha visto nascere il 15 febbraio 1925 a Paternò. Contadino e fornaciaio assieme al padre, Francesco (Cicciu) Busacca da bambino rivela l’amore per la poesia creando componimenti augurali in occasione di battesimi e matrimoni. Centro fiorente alle falde dell’Etna, Paternò era meta di canzonettisti ambulanti (piazzisti) e più anziani cantastorie quali Orazio Strano (1904-1981) che, con chitarre e cartelloni, facevano la posteggia nella piazzetta dell’Urna. Per Busacca e altri giovani cantastorie di Paternò quali Francesco Paparo (detto Rinzinu), Matteo Musumeci e Vito Santangelo, questi furono i maestri. Nel ‘51 fu l’anziano Gaetano Grasso (1895-1978) a invogliare Cicciu a debuttare a San Cataldo (Caltanissetta) con “L’assassinio di Raddusa”, sulla vendetta compiuta da una diciassettenne con la pubblica uccisione dell’uomo che l’aveva violentata. Prima storia del cantastorie Cicciu Busacca di cui la mostra taorminese espone l’originale libretto a stampa.
Dopo le prime comparse col maestro Paolo Garofalo (1914-2016), Busacca dimostrò di essere il “nuovo cantastorie”. Assieme ai cartelloni – dipinti da Vincenzo Astuto e Orazio Patanè – iniziò a usare microfoni e altoparlanti, sul tetto di un’auto adibita a palcoscenico ambulante per diffondere nelle piazze l’ideale di un cantastorie che lotta per riscattare il “suo popolo” dalle condizioni di subalternità, da un codice d’onore violento e chiuso, dalla feudalità mafiosa che opprime i deboli. In quest’ottica sbocciano storie quali “Carnificina a Pulignanu a mari”, “L’avvucatu assassinu”, “Petru Taurmina lu sfurtunatu”, “L’emigranti in Girmania”, “Carmelu Ciaramedda. L’omu cchiù sfurtunatu di lu munnu”, “La belva di Lintini”, la “Storia di lu briganti Musulinu”, la fortunatissima “Storia di Turi Giulianu” che ebbe numerose edizioni discografiche e divertenti contrasti poetici sulla moderna vita domestica o sulle disparità tra ricchi e poveri quali “Cumannanu li mogghi”, “Comu canciari lu munnu”, il “Duellu tra la morti e il miliardariu”.
Nel ’53, presentato dal poeta Turiddu Bella (1911-1989), Busacca conosce il poeta di Bagheria (Palermo) Ignazio Buttitta (1899-1997) con cui stringe un fertilissimo sodalizio che, nel ‘55, quando la mafia assassinò il sindacalista socialista Salvatore Carnevale diede il primo straordinario frutto. Per la sua voce Buttitta compose infatti “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnevali”, tra le più alte pagine della poesia siciliana contemporanea, rappresentata per la prima volta a Livorno alla presenza di Carlo Levi. Il successo del “Lamentu”, suggellato dallo stesso Levi che alla prima rappresentazione salì sul palcoscenico abbracciando e dicendo al cantastorie «benedetta quella mamma che ti ha messo al mondo» (Vezzani 1978: 17-20), proiettò l’impegno di Busacca oltre l’isola. Dopo aver preso parte nel ’56 alla rassegna Pupi e cantastorie di Sicilia organizzata al Piccolo Teatro di Milano, vinto nel ’57 il titolo di Trovatore d’Italia nell’ambito della I Sagra nazionale dei cantastorie organizzata a Gonzaga dall’Associazione Italiana Cantastorie, nel ’69 Busacca si stabilì a Como avviando un’intensa attività di spettacoli in Italia e all’estero.
L’insostituibile supporto poetico e politico di Buttitta fece sì che abbracciasse un nuovo repertorio di denunce sociali, teso ad affrontare irrisolte questioni quali la mafia, l’emigrazione, il malgoverno, la subalternità economica del Sud. Ciò sarà d’esempio ai più giovani cantastorie quali Franco Trincale (1935), verso il superamento della “pura” cronaca cantata e istanze di rinnovamento. Da qui “Lu trenu di lu suli” sulla tragedia di Marcinelle, “La storia dei fratelli Cervi”, “Che cosa è la mafia?” Più connesse al folk music revival sono iniziative quali, nel 1969-70, la partecipazione assieme a Rosa Balistreri allo spettacolo “Ci ragiono e canto” di Dario Fo e il Laboratorio di cultura popolare organizzato tra il ’72 e il ’76 sotto la guida antropologica di Diego Carpitella, Roberto Leydi e Annabella Rossi (che promosse presso il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma l’acquisizione di alcuni cartelloni del cantastorie). Nel ’76 lo ritroviamo, infatti, a Roma in uno storico concerto al Folkstudio come nella suddetta trasmissione Rai “Italia bella mostrati gentile”; nel ’78 con le figlie Pina e Cettina ne “La giullarata” del collettivo teatrale di Dario Fo. Dai primi anni Ottanta, la salute cagionevole, la chiusura delle piazze e il declino del folk music revival segnarono la fine delle attività del cantastorie che morì a Busto Arsizio (Varese) l’11 settembre 1989.
Quanto s’è detto a proposito di Cicciu Busacca e della mostra che Roma e Taormina hanno voluto dedicargli, restituisce vive le potenzialità comunicative, conoscitive, politiche dei poeti-cantastorie, a mio avviso tutt’altro che inattuali e scomparse. Anzi ancor più vive ed utili nella piazza telematica e virtuale che crediamo libera del tutto e sconfinata ma che così affatto non è, perché marcata anch’essa da confini invisibili, user, password, controlli, accessi e usi limitati, abusi, violazioni, inganni, censure vere e proprie. In tal senso, Busacca e la sua vicenda da cantastorie, ci esorta a trovare proprio ciò che non viene o non può essere detto, i fatti silenziati o ridotti a trafiletti, ad effimeri post o ad allusioni che ancor oggi un cantastorie, con tecniche che riprendono ed espandono quelle trobadoriche medievali, può scovare e trasformare in veri e propri nuovi poemi da cantare. È il cantastorie che s’impegna a porgere la sua voce a chi non ne ha. È così che, ad esempio, Claudio Piccoli e Tiziana Oppizzi – curatori della bellissima rivista Il cantastorie on line che prosegue l’impostazione sin dal 1963 data da Giorgio Vezzani (carissimo amico e studioso da poco scomparso cui dedico il presente contributo) a Il cantastorie, storica Rivista di tradizioni popolari dell’Associazione Italiana Cantastorie – non hanno potuto che aprire una vasta sezione a Cantastorie e coronavirus, tanti sono stati i canti narrativi che hanno inteso approfondire le contraddizioni, i silenzi, come gli assordanti clangori della “scienza” e della “politica” in epoca di pandemia. Lo stesso è avvenuto in “Pandemia d’autore”, progetto che ha dato vita al sito www.pandemikon.org.
È in questa logica continuativa che la mostra di Busacca è orientata e orienta ad esaltare le componenti innovative presenti nella poetica d’ogni cantastorie, sempre proteso a trovare nuove storie da cantare, a uscire dalle piazze rassicuranti e compaesane del Sud per dialogare con quelle di tutto il mondo, ad avvalersi dei nuovi linguaggi e mezzi tecnici di comunicazione. Questo, del resto, è il rinnovato intento laboratoriale dell’Associazione Cantastorie Busacca che intende appunto proseguire quello sperimentale, curioso e aperto che fu di Cicciu, a contatto con le nuove forme di teatro popolare e con le scuole nei corsi che puntualmente, sin dagli anni Settanta, teneva assieme ai suoi figli Paolo, Pina e Cettina. Un intento che – osservava il poeta di Avola (Siracusa), Salvatore Di Stefano – porta ogni cantastorie a osservare continuamente il mondo e «quando vedo qualcosa che non mi quadra: bene! Dico a me, qui c’è da fare una storia!» (Burgaretta 1981). Così, nei quattro versi iniziali de “La moda di lu 1962″, Cicciu Busacca indica con grande risalto il processo per il quale, nell’incessante lavorìo osservativo condotto dal cantastorie, ogni realtà storica tornerà sempre in piazza sotto forma di musica e poesia ad alimentare i pensieri e le voci degli uomini:
Jennu girannu pi tutti li strati / di n’zoccu vidu mi pighiu l’appunti,
e poi cumpongu sti beddi raccunti / e nta li chiazzi li vegnu a cantà.
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Riferimenti bibliografici:
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* Mauro Geraci, professore ordinario Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Messina, è autore del volume “Le ragioni dei cantastorie. Poesia e realtà nella cultura popolare del Sud” (1997), primo studio sistematico sulle prospettive poetiche e conoscitive dei poeti-cantastorie siciliani.
Il cartellone rappresentato nella foto fa parte dell’Archivio Associazione Cantastorie Busacca