Alessandro Baricco, La Repubblica, 21 V 2019
IL POPULISMO FRUTTO DEGL ECCESSI DELLA TECNOCRAZIA
BARICCO LEGGE DAVIES
“GLI OCCIDENTALI SI SONO MESSI A GUARDARE BENE QUELLA RICCHEZZA, QUEL PROGRESSO, QUELLA LIBERTÀ: CI HANNO VISTO UNO SPORT RISERVATO A POCHISSIMI E CAPACE DI GENERARE NEGLI ALTRI SOFFERENZA, ESCLUSIONE, REGRESSO ECONOMICO, RABBIA E, IN REGALO, UN PIANETA SPREMUTO COME UN LIMONE’’
Trump e la Brexit non sono passati invano, così se entri in un libreria di Londra o New York ne trovi a chili di libri che cercano di spiegare perché, capire come, sostenere che. Sono sotto scacco, le élites anglosassoni (le élites per eccellenza, solo i francesi reggono quel ritmo) e poiché una delle cose che fanno da secoli è scrivere libri, ci danno dentro alla grande.
Ogni tanto, ne arriva qualcuno anche in Italia, di quei libri. Adesso per esempio Einaudi Stile Libero ne ha pubblicato uno che si intitola “Stati nervosi“. Sottotitolo: “Come l’emotività ha conquistato il mondo“. Detto così ci si può aspettare l’ennesima lamentazione sul fatto che la gastro-intelligenza dei populisti ha fatto fuori la cristallina cultura di noi che abbiamo studiato, ma la verità è che no, il libro dice qualcosa di più interessante, e utile. Parte da quella sfida lì — esperti contro predicatori, élites contro popoli, razionalità contro emotività, fatti contro favole — ma appena può chiarisce bene una cosa: se pensate di cavarvela stando dalla parte degli intelligenti state prendendo una bella cantonata.
Dato che l’autore si chiama William Davies, insegna all’University of London e collabora con testate come The Guardian o London Review of Books, e insomma è chiaramente iscritto al club degli intelligenti, la cosa appare abbastanza curiosa, se non anomala. Per cui mi son messo a leggere con attenzione. Quel che dice Davies è che l’idea di gestire la realtà in modo razionale, usando i numeri, affidandoli a gente competente e isolando una serie di fatti universalmente condivisi e non discutibili, è nata in Europa dopo il macello della Guerra dei Trent’anni, quindi nella seconda metà del ‘ 600.
Troppe sofferenze per troppi anni fecero collassare quasi tutti i modelli preesistenti, che fossero militari o economici, e se ne venne fuori quell’idea di Nazioni tecnocratiche, organizzate in modo che l’insidia del caso e il veleno delle emozioni venissero messi ai margini dei processi decisionali. Non era un’idea campata in aria, anzi in qualche modo era coerente con tutto un habitat culturale che si stava formando. Rivoluzione scientifica, Cartesio, Hobbes: gli umani occidentali stavano facendosi un nuovo nido mentale.
Davies fa l’esempio, molto puntuale, della Royal Society, in Inghilterra (1660): una comunità di esperti che, lasciando da parte sentimenti, opinioni ed emozioni, cercava di collezionare fatti, da tutti condivisi, su cui si potesse costruire una governance della realtà: come bene riassume Davies «si cercava qualcosa che fosse al di là delle dispute, ma che non fosse Dio». Il culto dei fatti nasce lì.
Come progetto, bisogna dirlo, era visionario ed elettrizzante. Oggi un dirigente del Fondo Monetario Internazionale non è una figura che inclini alla simpatia, ma se lo prendete e lo collocate nel 1660 quello fa la figura del genio visionario, ve l’assicuro. E in effetti, registra Davies, quell’idea di rifarsi a una realtà più possibile oggettiva e di capirla con la forza dei numeri e degli esperti è un’idea che ci ha portato dentro la modernità, alleviando sofferenze e smantellando un bel po’ di assurdità. Bene. Solo che, come tutte le religioni, anche quella dei fatti ci ha messo poco a diventare una forma di idolatria cieca e uno strumento di dominio per una casta sacerdotale. E qui Davies ci va giù duro.
Quel che è successo, dice, è che definire i fatti, stilare i numeri e formulare le decisioni è diventato nei secoli un giochino riservato a un’élite di esperti sempre meno interessata a capire il mondo nella sua complessità e sempre più ossessionata dalla necessità di semplificarlo per poterlo controllare e dominare meglio (vedi le statistiche, splendido esempio di non-sapere utile al dominio).
Volendo riassumere, la razionalità è diventata una forma di pensiero unico al servizio del Capitale. Negli ultimi cinquant’anni, conclude Davies, il neoliberismo ha dato la spallata finale, arruolando i fatti, i numeri e la razionalità nella sacra missione di perseguire il progresso, aumentare la ricchezza collettiva, santificare la figura dell’Imprenditore Privato e difendere il Mercato dalle pericolose ingerenze degli Stati.
Da quel momento il valore dei fatti ha iniziato a crollare, la razionalità è diventata qualcosa di infido e i numeri si sono svelati per quel che sono: pura narrazione travestita da oggettività. C’è tutto un mondo che si fida ormai più dell’istinto, dei ricordi, del buon senso, e delle parole. Può non piacere, dice Davies, ma è così. « Il successo dei populisti sia di destra sia di sinistra dovrebbe dirci che il desiderio di cambiare rotta e di giungere a una sicurezza collettiva è molto più importante per le persone rispetto al bisogno di verificare i fatti». È quasi un cammino irreversibile. «Gli eccessi della tecnocrazia sono responsabili di questo declino della ragione politica ». Amen.
In una situazione del genere, affonda Davies, ostinarsi a reclamare il valore dei fatti e della razionalità è una forma di inutile “machismo” (la definisce proprio così) che «serve in parte a nascondere una scomoda verità, cioè che gli appelli delle élite all’oggettività sono sempre più vulnerabili ». Abbastanza feroce. Voglio ricordare che in tutto il libro non c’è una sola riga in cui i populismi siano ritenuti anche solo lontanamente un fenomeno di cui essere lieti. Tuttavia Davies è convinto che i populisti non facciano che cavalcare qualcosa che è già successo prima di loro: quando il neoliberismo ha iniziato a crollare si è trascinato con sé quell’ideale di oggettività, di freddezza scientifica, di competenza di cui si era servito cinicamente per i propri scopi.
Da quel momento, pensare di invertire la rotta è illusorio. Probabilmente, conclude Davies, dobbiamo prendere atto che questa è una guerra diversa, che si combatte su un piano diverso, con materiali e tecniche diversi. È un nuovo terreno da gioco, mi sembra di capire, in cui lo statuto dei fatti è velocemente cambiato, e in cui porre l’alternativa tra razionalità e emotività è da stupidi. Davis la dice così: «Che sia arrivato il momento di prendere esempio dai populisti e nazionalisti e accettare il fatto che siamo tutti in una situazione di quasi guerra?[…] Può darsi che le “guerre culturali” si debbano combattere da entrambi i fronti. Questo non è necessariamente spaventoso come potrebbe sembrare».
Spaventoso no, ma magari un tantino vago? Certo, mentre rileggevo qua e là il libro, mi è venuto in mente perché alla fine Davies mi è sembrato uno da leggere, pur nei suoi limiti: rappresenta bene un preciso tipo di smarrimento molto diffuso tra un certa élite outsider. Si incrociano, in quelle coscienze, tante cose — il disprezzo per il neoliberismo, il trauma di vedere i deboli rappresentati dalla destra, la difesa del pianeta terra, la quasi paranoica paura del Game, la fiducia negli esperti ma non in quegli esperti, la fascinazione per il sapere, l’empatia per l’ignoranza: alla fine è molto difficile convogliare tutta quella intensità — quella passione — a combattere su un fronte, perché non si trova il fronte.
Sono intelligenze orfane di una guerra, perché sono circondate dal nemico ma non riescono mai, veramente, ad arrivargli davanti. Adorerebbero combattere, ma è dubbio che ci sia ancora una gente, o una terra, dietro, da difendere. Così bruciano quantità immense di giovinezza nel buio, a scaldarsi ai falò delle retroguardie. Non posso escludere che sia il posto da cui, senza accorgermene, scrivo queste righe.