Diego Fusaro, Il Fatto Quotidiano, 9 III 2019
Il capitale vince perché ci chiede di essere la parte peggiore di noi
La realtà supera assai spesso la fantasia. Dopo il 1989, la classe dominata e supersfruttata ha preso senza residui a lottare in difesa del mondo socio-economico che, a un’analisi attenta del diagramma dei rapporti di forza, avrebbe tutto l’interesse a rovesciare in vista della propria liberazione. D’altro canto, è sotto gli occhi di tutti: il sofisma della “mano invisibile”, il mito della coincidenza tra interessi privati e benessere pubblico, si è mostrato nella sua autentica natura illusoria. Venuto meno il suo velo ingannevole, il capitale si è mostrato nella sua reale spietatezza: ha reso palesi, con le parole dell’Introduzione alla metafisica di Heidegger, “la fuga degli dèi, la distruzione della terra, la massificazione dell’uomo, il prevalere della mediocrità”, ossia i suoi autentici fondamenti. E nondimeno, anche al netto delle tragedie sociali che senza posa produce, il capitale continua a essere oggetto di una fede incrollabile e ubiquitaria, radicata anche presso il polo di quanti, nel lottare contro di esso, avrebbero da perdere solo le proprie catene.
Come ho sostenuto in Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (2012), ogni pancia vuota continua a rappresentare un niente affatto secondario argomento contro quest’ordine della produzione “sensibilmente sovrasensibile” (Marx), che ha fatto della vita stessa una lotta cannibalica per la sopravvivenza. E invece le pance vuote, peraltro ogni giorno più numerose, continuano a prestare fede al credo quia absurdum della religione del libero mercato e delle omelie dei taumaturghi del neoliberismo. Se si sollevano – ciò che, invero, accade assai sporadicamente – lo fanno tendenzialmente contro ciò che potrebbe mettere a repentaglio la tenuta sistemica del disordinato ordine del fanatismo economico.
Questo aspetto deve, certamente, anche essere posto in connessione con la suadente antropologia che il capitale generalizza, centrata sul profilo dell’individuo senza gravità e senza limitazioni, per cui ogni desiderio coincide con un diritto che deve essere soddisfatto per via consumistica e senza differimenti: life is now, come sempre ripete la salmodiante réclame della società dello spettacolo permanente. E anche al netto della discriminazione classista su cui l’ordine globocratico si regge – nella sua perpetua lotta contro tutte le discriminazioni che non coincidano con quella, sempre più opprimente, di ordine economico -, gli sconfitti della mondializzazione seguitano ad aderire con ebete entusiasmo al progetto del capitale.
Lo fanno perché, in fondo, esso non ci chiede che di essere disinvoltamente e senza inibizioni la parte peggiore di noi: il cinismo, l’avidità, la dissolutezza, l’egoismo e tutte le altre prerogative che le religioni e le morali del passato avevano all’unisono demonizzato come vizi perniciosi sono, con movimento contrario, innalzati dall’antropologia capitalistica a virtù somme per l’individuo sradicato, il cui sgravio di responsabilità verso tutto ciò che sta intorno a lui è encomiato come base del proprio successo imprenditoriale e dell’affermazione del proprio sé.
La civiltà, nel suo complesso, può anche essere intesa come un arduo tentativo di innalzare l’animale umano al di sopra della sua condizione meramente ferina, educandolo e inducendolo a sviluppare quelle determinazioni che, propriamente, lo distinguono dagli altri animali. Dal canto suo, l’antropologia connaturata al capitale è regressiva: sacrifica l’umano sull’altare del ferino e trasforma in imperativo categorico la semplice osservanza del principio della ferinità, le pulsioni immediate e la soddisfazione anomica del proprio godimento individuale privo di differimenti e di regole. In ciò sta la sua magnetica forza attrattiva di religione dell’immanenza e dell’egoismo.