Dario Denta, Specchioscuro, 21 VI 2022
Esterno Notte: l’affaire Moro come psicoanalisi di massa
Dal punto di vista psicoantropologico, molti italiani sembra- vano percorsi in quei giorni da una compulsiva tensione verso il sacrificio rituale. […] I giovani agognavano il parricidio, i vecchi l’uccisione del fratello migliore. (Gotor, Lettere dalla prigionia)
*
Derogando al buon senso del recensore dichiaro l’impossibilità di trattare in modo approfondito e completo “Esterno notte” di Marco Bellocchio se non dopo seconde e terze visioni e uno studio accurato che l’impellenza della “novità” non può agevolare. Consapevole che col tempo l’impellenza diverrà urgenza di inquadrare correttamente quella che è a tutti gli effetti un’Opera-mondo (proprio nella accezione di Franco Moretti) sia nel contesto produttivo attuale, che nella filmografia del regista, che nella storia delle rappresentazioni che l’Italia ha fatto di sé, mi limiterò qui a toccare due punti rilevanti che possono immediatamente desumersi dal film in relazione ai testi sui quali probabilmente Bellocchio ha costruito la struttura dello script, ma anche in relazione al suo precedente lavoro sul sequestro Moro “Buongiorno, notte” [M. Bellocchio, 2003] del quale “Esterno notte” costituisce il controcampo dal punto di vista concettuale e in alcune scene perfino da quello tecnico.
Il primo obiettivo è quello di dimostrare che le differenze tra “Buongiorno, notte” ed “Esterno notte” sono dovute anche al passaggio da una visione dell’affare Moro vicina a quella espressa da Leonardo Sciascia a una più completa attenzione agli eventi reali come emerge dal saggio dello storico Miguel Gotor. Il secondo obiettivo è quello di recepire alcune anomalie rispetto alla realtà storica, specialmente nell’episodio su Eleonora Moro, e mostrare che sono strumenti per la maturazione di una psicoanalisi di massa attraverso il cinema.
Come inciso costeggeremo il tema tipicamente bellocchiano del rapporto tra il politico e il privato, e sosterrò che “Esterno notte” configura un passaggio determinante in un percorso che ha sempre più assorbito la prima dimensione nella seconda, auspicando un ritorno all’individuo di contro alle astratte formule della ideologia.
Si sottolinea sempre troppo poco quanto l’esperienza della “analisi collettiva” dello psichiatra Massimo Fagioli, compiuta tra gli anni ‘80 e i ‘90 e poi abbandonata non senza polemiche, sia stata formativa nel percorso creativo di Marco Bellocchio. La tendenza a porre l’intero paese sul lettino del terapeuta si è ulteriormente vivificata da allora indagando i traumi della collettività italiana, senza dimenticare la costante presenza della dimensione famigliare come “filtro”: Mussolini e la Dalser (in Vincere [2009]), Eluana Englaro e poi l’affaire Moro in due diverse occasioni.
Il trauma del Paese va in scena durante quei 55 giorni di prigionia e di apprensione collettiva e viene vivisezionato in sei momenti diversi, cinque dei quali assumono l’ottica privilegiata di uno dei protagonisti della vicenda: lo stesso Moro prima della strage di Via Fani, Cossiga (un monumentale Fausto Russo Alesi), Papa Paolo VI, la brigatista Adriana Faranda e infine Eleonora Moro, moglie del Presidente della DC. Il sesto episodio è quasi una metariflessione e un bilancio emotivo dell’esperienza.
Se “Buongiorno, notte” è un breve film intimo che legge l’intera vicenda attraverso i sentimenti cangianti della brigatista “pentita” interpretata da Maya Sansa, “Esterno notte” è un affresco sociopolitico, che non difetta di psicologia ma anzi amplia la visuale attraverso molti canali. Se il film del 2003 possedeva inoltre un afflato morale che prevaricava la ricostruzione storica, “Esterno notte” è più preciso nel riportare i fatti (con alcune decisive imprecisioni) e tiene conto di sviluppi recenti nella ricostruzione del materiale documentale e dei maggiori contributi all’inquadramento del fenomeno all’interno dell’Italia degli anni ‘70.
Gli indizi disseminati nell’opera indicano che il testo cardine per la stesura della sceneggiatura è la curatela di Miguel Gotor delle “Lettere dalla prigionia” di Moro1 compreso ovviamente l’ampio e dettagliato saggio che – impartendo una mirabile lezione di metodo storiografico applicato a temi che percepiamo ancora pertinenti alla cronaca – vaglia una larghissima bibliografia sul tema e soprattutto ricostruisce le varie stesure delle missive, potendosi quindi permettere la proposta di un ventaglio di ipotesi lontane sia dal moralismo illuminista e assertivo di Sciascia che dal complottismo della vulgata pubblica sul sequestro e il suo tragico epilogo.
Lo spirito polemico e dissacrante dello scrittore siciliano, in quel piccolo gioiello letterario che è “L’affaire Moro”, nonché nella relazione di minoranza che lesse in Parlamento alla Commissione di Inchiesta, e che è allegata in tutte le edizioni successive al 1982,2 informa invece “Buongiorno, notte” insieme alle memorie dei brigatisti pentiti (importanti anche nel nuovo film).
Una delle scene più impattanti della prima parte di “Esterno notte” è quella in cui Moro e Berlinguer in macchina osservano gli uomini delle rispettive scorte parlare tra loro e rilevano che forse il Paese è più avanti della sua classe dirigente. La scena è molto simile alla ricostruzione narrativa che apre la prefazione del saggio di Gotor.
La stessa lettura antieroica di Moro è gotoriana (mentre Roberto Herlitzka in “Buongiorno notte” conferiva al personaggio una statura morale, pur nel suo essere soggetto dimesso e ai margini della narrazione), e si contrappone alla “letterarietà” di Sciascia che più volte afferma di considerare il sequestro Moro come “compiuta opera letteraria” (p. 27) e il Presidente della DC come personaggio pirandelliano (p. 76). Gotor invece si premura sostituire alla figura del martire quello dell’uomo di famiglia che combatte per aver salva la propria vita (pp. 191-193).
E ancora: in “Buongiorno, notte” era centrale il momento in cui Maya Sansa sognava le lettere dei partigiani della Resistenza alle proprie donne, e che anche suo padre scrisse nel momento in cui pensava di dover morire, e stabilisce immediatamente una analogia con le lettere di Moro alla moglie. Lo shock onirico poneva una combattente del popolo direttamente in relazione con gli odiati fascisti e il “fascista di Stato” nei panni del prigioniero politico che subisce una condanna a morte in un processo sommario e improvvisato, le cui conclusioni sono già stabilite nelle premesse. L’analogia ha serpeggiato a lungo nella letteratura sul sequestro ma Gotor la rifiuta nettamente. Le due situazioni sono incomparabili e accostandole si rischia di banalizzarle entrambe. L’argomento è svolto con rigore e fermezza, testi alla mano, ed è un passaggio chiave del suo saggio (p.189). Bellocchio non può più ignorarlo e l’analogia sparisce nell’episodio brigatista di “Esterno notte”. Il dramma morale si concentra su un dettaglio che è una delle chiavi interpretative degli eventi nella prospettiva di Gotor: la decisione delle BR di divulgare la prima lettera a Cossiga, scritta da Moro con l’intento di avviare una trattativa segreta (p. 194). Adriana Faranda si oppone da subito a questa decisione (nel film) e da qui comincia a dubitare delle scelte della direzione strategica.
Nel percorso di redenzione del membro delle BR pentito il passaggio dal primo al secondo Bellocchio è il passaggio dal dramma esistenziale, politico nel senso “alto” del termine, al dissidio sulle modalità strategiche di sovversione del sistema, e sulle regole minime di rispetto del nemico. Faranda non vede Moro come un martire (anche perché a differenza della brigatista di “Buongiorno, notte” non lo incontra mai) ma esprime gli scetticismi interni all’organizzazione in merito al rispetto della segretezza delle trattative, così centrale nella ipotesi di Gotor sulla “perfidia censoria” dei terroristi (p. 194).3
Sciascia viene poi recuperato verso la fine, al momento della telefonata al dottor Tritto, nella quale il brigatista spiega dove la famiglia potrà trovare il cadavere dello statista. Per Sciascia quello è uno dei pochi momenti di umana pietà dei brigatisti (e glielo ritorce contro in un clamoroso anatema a fine paragrafo) ed è un passaggio significativo nel suo testo (pp. 130-134), laddove Gotor lo ignora in quanto distante dai suoi intenti filologici. Bellocchio quindi lo inserisce e si immagina che l’umana pietà la provi Valerio Morucci, il brigatista che si vede come un eroe di Peckinpah 4 e che sottilmente, per amore della Faranda, si avvicinerà alla linea moderata e “rilascista”. In questo modo mantiene l’idea di Sciascia per cui quei tentennamenti e la lunghezza della telefonata sono segnali di accennata pietà, ma ne ammorbidisce il livore morale attribuendola a un personaggio che ha dimostrato già di averne.
Essendo un film “dal di dentro” “Buongiorno, notte” utilizzava molto materiale dell’epoca, riprese d’archivio telegiornali e trasmissioni varie. Il collegamento tra il mondo interno e quello esterno avveniva nel confronto tra il mondo di fiction e la realtà documentata, per come i sequestratori – segregati prigionieri col loro prigioniero – la vedevano e vivevano in diretta.
“Esterno notte” riduce al minimo il materiale d’archivio (considerando in proporzione alla durata) e in alcuni casi arriva addirittura a rimetterlo in scena e manipolarlo. In episodio 4 e 5 vediamo i funerali degli agenti della scorta. La prima volta le immagini sono quelle autentiche e, come in “Buongiorno, notte”, ci viene mostrata la reazione brigatista alla visione televisiva. Poi entriamo nelle immagini stesse e, avendole già viste, ci aspettiamo che avvenga qualcosa che ci aveva colpito in precedenza: il momento in cui la moglie di uno degli agenti si inginocchia, si lancia sul feretro del marito e lo abbraccia singhiozzando. Bellocchio ci aveva ritagliato questo particolare momento per poi in controcampo mostrarci il volto provato della Faranda. Entrati nelle immagini d’archivio quindi aspettiamo che accada di nuovo. Finché non notiamo Margherita Buy seduta in seconda fila; ergo stavolta le immagini sono fintamente “d’archivio” e noi osserviamo la reazione di un personaggio dal di dentro. Pochi istanti dopo la telecamera della tv si sposta su Cossiga ma anche lui è il Cossiga fittizio e sta controllandosi le mani. Un gesto che gli abbiamo visto fare nell’episodio dedicatogli nella prima parte e che aveva una forte carica simbolica: sulle mani del ministro sono apparse delle macchie, che non riesce a togliersi. Ecco allora che una immagine d’archivio finta che ne prepara una vera sta richiamando una immagine finzionale di un altro episodio. Eleonora Moro osserva sconcertata Cossiga convinta che quel gesto sia un’espressione di noia o di sufficienza, e invece è l’inizio di un angosciante viaggio nel senso di colpa.
Il senso di colpa – di matrice religiosa (e farei rientrare nella sfera religiosa anche il comunismo a sentire i dialoghi di episodio 4) – è il vero protagonista della vicenda e sono i soggetti coinvolti a portarne l’onere (come Moro porta la croce del suo partito nel sogno/visione di Paolo VI); non c’è bisogno dello sguardo di un Rosi o di un Petri che costruisca una demonologia del politicante, né del virulento J’accuse di un Pasolini (citato spesso da Sciascia peraltro): nello sguardo del regista di Bobbio, proprio come in un altro suo recente affresco italiano “Bella Addormentata”, gli uomini di potere sono sostanzialmente infelici e nevrotici.
Uno dei pochi giudizi contenuti in Gotor, desunti dall’analisi politica, è ripreso anche in “Esterno notte” che per il resto mostra le sfaccettature dei personaggi senza attribuire colpe che non si attribuiscano loro stessi. Parlo del virulento atto d’accusa al generale atteggiamento che da sempre la classe dirigente italiana, perlopiù formatasi al liceo classico e laureata in Giurisprudenza, rivolge nei confronti degli “incolti”, dei tecnici, degli “ingegnerucoli”. Cossiga ha uno dei suoi pochi moti di rabbia nel pensare al fatto che un plurilaureato, un umanista, docente universitario e poliglotta come lui debba scendere a patti con Moretti, un “diplomato del professionale”, perito geometra, che conseguentemente pensa in maniera dicotomica, che è “privo di sfumature”. Parole che contrastano con l’atteggiamento tutt’altro che altero, anzi viscido, protervo del Ministro dell’Interno che ascolta di nascosto le telefonate private dei cittadini e che – lui così importante, competente, preparato – è disprezzato perfino dalla moglie. Lapidario Gotor (p. 252): “[una classe dirigente] schiacciata da un’inarrivabile miscela di supponenza e di superficialità che l’indusse a sottovalutare il nemico che aveva davanti, a pensare di poter essere lei a vincerlo con la sola forza dell’astuzia nell’arte della politica”.
Non che Bellocchio metta in scena i terroristi come geni del male, intelligentissimi e devoti al pensiero complesso (pur scegliendo, sia in “Buongiorno, notte” che in “Esterno notte”, il punto di vista delle pentite). Ma attraverso le curate e dettagliate azioni che compiono ce li mostra anche preparati, precisi, matematici. Almeno fino a quando non interviene il dilemma etico, difficile da affrontare nel paradigma della lotta armata, se non smussandone gli angoli a suon di ferrei slogan fino a scavalcarlo di netto.
L’altra faccia della medaglia dei comportamenti, invero solo accennati, di arroganza (Cossiga), fermezza e coerenza (Andreotti), carisma guerrigliero (Morucci e Faranda) è una umbratile ipocondria morale e fisica, ognuno impossibilitato a far coesistere lacerazione interiore e necessaria auto-rappresentazione “eroica”, secondo i propri miti: quello cristologico per cristiani e democristiani (croci, stimmate), quello guevarista per i comunisti (esibizione di armi, come nella scena sulla spiaggia, o polemica sfida al nemico, come nella contestazione degli studenti durante la lezione di Moro).
La complessità del rapporto tra dimensione privata/psicologica e pubblica/politica ha attraversato l’intera carriera di Bellocchio fin da “I pugni in tasca” [M. Bellocchio, 1965] dove il nesso era metaforico,5 per giungere l’anno scorso a “Marx può aspettare” [M. Bellocchio, 2021] dove – eliminato qualunque filtro narrativo dai suoi traumi famigliari – il regista finiva per ammettere il fallimento innanzitutto morale della sua (e dei suoi fratelli) giovanile esperienza politica. Ecco perché egli è l’unico grande regista della sua generazione ad aver fatto i conti con le proprie personali radicali posizioni politiche e con la temperie culturale dentro la quali maturarono, facendo da stampella al fanatismo, malattia infantile della ideologia, e, in ultima istanza, alla stagione della violenza, malattia senile. E lo si vede già dal trattamento per nulla ideologico offerto ai “compagni che sbagliano”, sia in “Esterno notte” che in “Buongiorno, notte”.
Ed ecco perché “Marx può aspettare” è il vero preambolo a “Esterno notte”, controcampo più efficace del precedente film “moriano”. Una volta compreso che lui e la sua famiglia avevano subordinato ai problemi del singolo, alla considerazione dell’altro come individuo, una ideologia, a Bellocchio non resta che leggere la Storia nella stessa maniera: una serie di quadri che da un lato si cura dell’individuo rappresentato, nella sua dimensione tragica e umana (rifiutando il farsesco del cinema politico italiano), dall’altro esplora come ognuno di loro sacrifichi una vita umana concreta, immoli l’individuo, nel nome di astrazioni quali la lotta di classe (le BR), il senso dello Stato (la DC) e il decoro e la moderazione cristiani (i Moro e Paolo VI), di un cristianesimo più che mai inerte, ingessato.
L’episodio 5, incentrato su Noretta, è il momento rischiarante del resto del film. Colpa e angoscia dell’immobilità appaiono esasperate all’interno del contesto che più di ogni altro avrebbe dovuto incentivare la liberazione di Moro. Non che Bellocchio non abbia un occhio di estremo riguardo verso la sofferenza dei famigliari stretti, ad esempio in tutti i fastidiosissimi e pelosi momenti di genuflessa e ipocrita contrizione dei colleghi di partito, invasivi della sofferenza e del salotto privati dei Moro. Ma il continuo appello alla moderazione della madre ai figli, le divergenze sull’interpretazione da dare ai desideri paterni espressi nelle lettere, specialmente con la figlia maggiore Maria Fida, e le “visioni”, come quella in cui Nora si vede lucchettata davanti a Palazzo Chigi, gesto quanto mai simbolico ma che sappiamo non avrebbe lo spirito di fare, concorrono a mostrarci una impossibilità ad agire che non può che dilaniare anche coloro ai quali nessuno attribuirebbe la responsabilità del sanguinoso epilogo.
Una delle lettere più strazianti alla moglie è quella del 27 marzo 1978 (le lettera n. 4 in Gotor, p. 9) e al momento della lettura diventa fonte di profonda angoscia, marcando ulteriormente la sofferenza della situazione. Peccato però che sia una anomalia storica: questa particolare lettera non venne mai recapitata, pertanto non venne letta fino al ritrovamento in via Monte Nevoso nel 1990. Non ci sarebbe motivo di metterne in scena la lettura da parte di Nora se non per incidere ancor più il solco tra frustrazione e realizzazione come si configura nella cattività forzosa della famiglia.
Più rilevante è un altro dettaglio anomalo e anacronistico. Atterriti dalla indifferenza democristiana i familiari di Moro all’epoca rilasciarono pubblicamente ai giornali un comunicato in cui accusavano i compagni di partito del loro congiunto, facendo nomi e cognomi. Nel film invece il comunicato viene letto davanti a una folla di giornalisti, ripetuto integralmente ma omettendo proprio quei nomi e cognomi. L’affermazione che quelli di Moro sarebbero “sedicenti “amici” e conoscenti” non appare dopo la lista dei cinque nomi maggiormente responsabili, e questo spinge i cronisti presenti a chiedere chi siano questi amici, senza ottenere risposta. Nel film, insomma, la famiglia Moro è raffigurata come più prudente e meno coraggiosa e indignata di quanto lo fu nella realtà. Questa anomalia è un chiaro indizio non di una visione distorta della Storia, da attribuire a un tentativo di tesi politica dell’autore, ma di una visione plausibile della percezione di Nora nei confronti del suo stesso comportamento: non è stata decisa, forte, diretta. Insomma non ha fatto abbastanza. È l’ennesimo senso di colpa inevaso – come Cossiga che ha visioni del suo mentore già condannato – che non può essere sconfitto da considerazioni obiettive. Il senso di colpa ci tormenta, anche se abbiamo fatto tutto il possibile.
Una delusione per chi (credo non pochi) si aspetta che un film del genere risponda alla domanda: di chi è davvero la colpa? La vulgata la attribuirebbe tutta alla DC, i più realisti sia alla DC che alle BR, quasi nessuno alla immobilità della famiglia o dell’opinione pubblica, o perché no alla prona autocensura dei giornali secondo direttive di governo; qualcuno infine si arrischierebbe ad incolpare lo stesso statista, magari reo di ingenuità strategica nei confronti sia dei sequestratori che dei compagni di partito.
La verità storica – ancora in parte da ricostruire ma meno torbida che in passato – non permette di mostrare, o al massimo fa intravedere, una verità psicologica che è la somma di tutte le angosce dei protagonisti della vicenda: tutti si dovrebbero spartire la colpa. Non tanto perché ce l’hanno “oggettivamente” (ma la colpa, concetto così profondamente cattolico, è possibile poi da provare davvero?) ma perché ognuno di loro sente di non essere stato in grado di deviare il corso della Storia, da Cossiga al Papa, dalla Faranda a Noretta Moro e figli, fino alla disperazione terminale e annaspante del Presidente della DC davanti al confessore. Questa verità può emergere solo nella visione di Bellocchio, in cui c’è pietà per (quasi) tutti, e al contempo è impossibile non vedere in ognuno di loro una involontaria ignavia, per paura, per eccesso di prudenza, per impossibilità concreta a disobbedire. E così la lotta all’ultimo sangue di Moro per sopravvivere è tenuta ai margini (come in parte era in “Buongiorno, notte”) e in primo piano troviamo le turbe di chiunque, direttamente o tangenzialmente, sia stato o si sia sentito chiamato in causa perché il delitto non si compiesse, e la vicenda prendesse un’altra piega. Quella di Bellocchio finisce per essere una posizione meta-etica che considera le omissioni come azioni; non è vero che non facendo nulla non si fa la Storia. Perché ognuno di loro è o si sente corresponsabile (almeno interiormente) per “non aver fatto abbastanza”. 6 Il dramma di Eleonora Moro è quello che rischiara tutti gli altri, perché ne è l’esperimento estremo. E non a caso viene prima del redde rationem finale.
Moro, di nuovo per avallare questa ipotesi, non è l’unico ai margini. Lo sono anche Andreotti e Zaccagnini, così come Moretti e i brigatisti della direzione strategica favorevoli all’esecuzione. Insomma i personaggi che la Storia ci consegna come privi di dubbi (nel caso di Andreotti rimando, per turbare qualche sonno, all’agghiacciante ‘traduzione’ di un suo comunicato che fa Sciascia, pp. 120-121). Non sono la decisione di sopravvivere o la granitica certezza ad interessare Bellocchio, ma quella dimensione – innanzitutto religiosa (comunismo compreso) – in cui si compie il dramma umano per eccellenza, il dramma morale.
La mastodontica operazione di psicoanalisi di massa che è “Esterno notte”, in cui Stato e terroristi ingollano farmaci a volontà, e i bambini vengono abbandonati fuori da scuola, è la grande lezione (attuale) sulla ipocrisia del potere (qualunque potere, anche quello “minoritario” dei terroristi) e sulla profonda incompatibilità tra ideologia e moralità.
NOTE
1. Le citazioni saranno tratte dalla edizione Einaudi del 2018.
2. Citazioni dalla edizione Adelphi del 1994.
3. Non è certo l’argomento decisivo ma per inciso noterei che Gotor appare anche in un cameo, nel ruolo del giudice istruttore nel processo contro alcuni brigatisti in episodio 1.
4. Merita analisi a parte la presenza massiccia di riferimenti metacinematografici in un film che si vuole “storico”. Per dirne solo alcuni: Morucci esaltato da “Il mucchio selvaggio” [The WildBunch, S. Peckinpah, 1969]; il manifesto di “Anima persa” [D. Risi, 1977] a inizio film; Moro che alla radio ascolta un programma su “Cristo si è fermato a Eboli” [F. Rosi, 1979], il cui progetto iniziale era simile a “Esterno notte”; il finto film amatoriale degli studenti di teatro con il regista Roberto Cappuccio che interpreta sé stesso che interpreta Moro e viene ucciso nel film proprio nella scena di raccordo tra episodio 5 e 6, cosicché vediamo per la prima volta Moro morto nella “finzione”, non più salvato dal cinema come nel finale di “Buongiorno, notte”; infine la scena del confessore non può che rimandare a “Il caso Moro” [G. Ferrara, 1986], probabile ispiratore (anche qui, su suggerimento del saggio di Gotor, p. 215) delle deposizioni più fantasiose di alcuni brigatisti, per cui Moro avrebbe ricevuto un prete in cella, cosa ritenuta perlopiù implausibile dallo storico romano.
5. Giova recuperare e aggiornare l’analisi di Maurizio Grande in “Eros e Politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri Petri Bertolucci Taviani” (Protagon, 1995) sia dal punto di vista teorico generale (capp. 1 e 4 sulla possibilità di definire il cinema politico anni ‘70 e di ricavarne una precisa ideologia) che nello specifico sull’opera prima di Bellocchio, della quale sottolineava la “teatralità”.
6. Tra le decine di testimonianze di protagonisti collaterali o di prim’ordine, colpisce il titolo del libro di Vittorio Cervone, sottosegretario della DC: “Ho fatto di tutto per salvare Moro”. Sorta di excusatio non petita davanti alla propria coscienza.