Massimo Cappello e Giacomo Di Girolamo, La Repubblica, 7 IX 2015
QUEL LABIRINTO CAPOLAVORO CHE SPIEGA LA SICILIA
GIBELLINA – Su uno dei blocchi di cemento c’è, poggiato, lo scheletro di una sedia. Lo guardi un po’ circospetto, ci giri intorno, non sai se spostarla o meno, quella sedia – magari è un pezzo d’arte – poi vinci l’imbarazzo e chiedi al tuo accompagnatore: “È un’installazione artistica?”. E lui: “No, no, chissà chi l’ha messa qui”. È solo una semplice sedia rotta, abbandonata da chissà chi, al centro dell’opera d’arte en plein air più grande e tormentata d’Europa: il Grande Cretto di Alberto Burri, sopra quel che resta di Gibellina, nel cuore della Valle del Belice, in Sicilia, distrutta da un terremoto nella notte tra il 14 e il 16 gennaio del 1968.
Di Alberto Burri (1915 – 1995) ricorre quest’anno il centenario della nascita. Lo sanno bene al Guggenheim di New York, che dal 9 ottobre al 6 gennaio 2016 gli dedicherà una grande retrospettiva dal titolo “The trauma of painting”. Una sua “Combustione plastica” (1960) è stata venduta lo scorso febbraio all’asta al Christie’s di Londra al prezzo di 5,6 milioni di euro. La mostra del Guggenheim ha anche un’ambizione: presentare agli americani il Cretto di Gibellina (ci sarà una video installazione), trovando magari i mecenati per restaurarlo.
Già, perché il Cretto non sta messo bene. Dicono che il maestro si commosse quando venne qui a Gibellina nel 1985 e l’allora sindaco Ludovico Corrao lo portò a vedere le macerie. “Faremo un grande cretto – annunciò – un sudario di blocchi di detriti del paese, che ripeta la pianta stradale di Gibellina. Sarà un’opera monumentale, per raccontare il dolore a chi non c’era e non dimenticare“. L’estensione prevista era di 94.000 metri quadrati. I lavori cominciarono subito nel 1985 e si bloccarono nel 1989: mancavano i soldi.
Oggi nel Cretto ci sono voragini, cespugli che spuntano qua e là, erbacce che si arrampicano sui blocchi. Non ci sono i soldi per la manutenzione, né addetti, però la Regione Sicilia ha trovato i fondi per il completamento – 2 ,4 milioni di euro – dato che l’opera era ferma dalla fine degli anni ’80, a due terzi del lavoro. E come per Gibellina, che adesso è divisa in vecchia e nuova (distanti tra loro 25 chilometri) anche per il Cretto c’è una parte vecchia e una nuova, con un curioso effetto bicolore, che riduce quest’opera vista dall’alto ad una specie di grande macchia di caffellatte versato sulla Valle del Belice.
L’opera non è neanche tutelata. Tecnicamente, ognuno può lasciare una scritta oscena o fare pipì senza subire sanzioni particolari, portarsi via un pezzo delle macerie di Gibellina vecchia senza rischiare nulla. Ed è proprio per la mancanza di vincoli intorno al Cretto che negli anni sono state fatte cose di dubbio gusto: qualche costruzione, un parcheggio raffazzonato, sentieri di cemento. Il tutto “accompagnato” da una segnaletica inesistente, che rende il luogo pressoché irraggiungibile ai visitatori. Inoltre le strade sono interrotte a causa di eterni lavori in corso.
I turisti arrivano qui per caso: “Dovevo andare a Corleone e mi sono perso”, racconta un francese che si aggira tra i blocchi di cemento spaesato, in costume e sandali. “Mi potete spiegare che roba è?”. Affascinato dal mito del padrino e della mafia – il vero richiamo turistico della Sicilia – è partito con la sua auto da Mazara del Vallo, dove faceva base, e si è infilato in quel dedalo di stradine, cantieri e “regie trazzere“, che è la rete viaria siciliana, finendo in questo sudario di cemento che invece – ma lui non lo sa, pensa solo a Corleone – la racconta benissimo la mafia di oggi nel suo essere così: grigia e labirintica.
Come se non bastasse, sulla collinetta che sovrasta il Cretto di Burri sono sorte anche delle pale eoliche. Un colpo all’occhio quelle pale eoliche piantate lì? Forse, di sicuro un colpo all’orecchio. Burri aveva pensato questo luogo come un sacrario, con il massimo silenzio, grandi spazi intorno, e invece oggi il visitatore è immerso in un rumore di fondo – le pale che girano – che ricorda una tangenziale all’ora di punta o il rullaggio degli aerei in pista.
Qualche giorno fa dall’interno del complesso del Palazzo Di Lorenzo è stato rubato il serpente in bronzo realizzato dall’artista napoletano Montano. I gibellinesi sono molto legati al serpente. Lo indicano come luogo per gli appuntamenti (“vediamoci al serpente…”), sotto il suo sguardo bifido molte coppiette si sono date il primo bacio. È per questo che la caserma dei carabinieri è stata sommersa di telefonate: trovate subito il serpente. E gli uomini dell’Arma lo hanno trovato davvero, dopo un paio di giorni, grazie a una soffiata, nella vicina Marsala, in un casolare in campagna, già diviso e pronto per essere fuso. Povero serpente. I ladri ne avrebbero ricavato bronzo per qualche migliaio di euro, ma l’opera in sé vale molto di più….
“Il fatto è che ci vorrebbe la videosorveglianza, ma soldi non ne abbiamo”, dice il sindaco Salvatore Sutera. Il problema è che nemmeno lo sanno, a Gibellina, quante opere d’arte contemporanea hanno disseminate nel territorio. Chi dice cinquanta, chi dice anche di più. La città è il più grande museo d’arte contemporanea a cielo aperto del mondo, piena com’è di opere di Arnaldo Pomodoro, Pietro Consagra, Mario Schifano, Carla Accardi e tanti altri artisti, chiamati da Corrao per dare il loro contributo alla rinascita.
Al Comune i soldi per mantenerle, tutte queste opere, però non ci sono. E così, come il Cretto, si stanno un po’ perdendo, tra la ruggine, i pezzi che cadono, i colori che sbiadiscono. E poi c’è sempre quel problema. Non si capisce cosa è opera d’arte e cosa non lo è. L’ex sindaco Rosario Fontana, architetto, fece buttare una specie di gabbia di ferro collocata all’ingresso del Palazzo di Lorenzo. “È tutta arrugginita” si lamentò. E la gabbia finì al ferrovecchio. Impegno di spesa per il Comune: 1058 euro. Apriti cielo, era un’opera dell’artista brasiliano Milton Machado, dal titolo profetico: “Modulo di distruzione nella posizione Alfa”.
È tutto un po’ confuso a Gibellina, il terremoto è un giramento di testa che dura ancora oggi. Hanno costruito una città fantasma, gli urbanisti di fama mondiale che hanno progettato la nuova città piena di opere d’arte. Il concetto di ricostruzione si è talmente dilatato che è diventato altro. Uno spazio lunare pieno di totem e vuoto di persone.
E chi vive qua, in queste piazze enormi che diventano campetti di calcio per i bambini, fontane monumentali senz’acqua, edifici nuovi che già crollano, il problema non se lo pone. Ci si è adattato. Si sopravvive al terremoto, ci si adatta a quel che viene dopo. Qui davvero il transitorio – la ricostruzione – è diventato definitivo. L’incompiuto si è fatto stile, per necessità di sopravvivenza (c’è tutto in indotto che campa con i fondi post terremoto) più che per vezzo d’arte.
Almeno, salvassero il Cretto. A percorrerlo vengono i brividi. Un po’ per quello che rappresenta, un po’ per il vento che lo attraversa. Ad ascoltarlo bene, sembra trasmettere l’eco di Danilo Dolci, che nel 1970, lanciò la prima radio libera d’Italia: la radio dei poveri Cristi della Sicilia Occidentale. Voleva denunciare le condizioni disperate della popolazione della Valle del Belice. Durò un solo giorno, ma l’eco di quell’appello arriva ancora oggi: “Siciliani, italiani, uomini di tutto il mondo, ascoltate: si sta compiendo un delitto, di enorme gravità, assurdo…”. Mezzo secolo dopo, la ricostruzione infinita del Belice.