Riccardo Luna, Corriere della sera, 10 III 2025
Internet, da «dono di Dio» a pericolo per la democrazia: cosa è andato storto?
Cos’è andato storto? Come è successo che «la prima arma di costruzione di massa», la rete di computer che doveva servire ad «abbattere muri e costruire ponti» fra le persone, si è trasformata nel più insidioso strumento per picconare le democrazie? Quand’è, precisamente, che la storia è cambiata?
Qualche giorno fa sulla bacheca digitale interna di Google è apparso un messaggio che fotografa benissimo lo sconcerto che tanti avvertono. É apparso dopo che nel giro di qualche giorno Google ha ribattezzato, sulle sue mappe, «Golfo d’America» il Golfo del Messico, come ordinato dal presidente degli Stati Uniti; e cancellato i programmi di inclusione delle minoranze, come auspicato dal presidente degli Stati Uniti; e infine rimosso lo storico divieto – che si era autoimposto – di utilizzare l’intelligenza artificiale per scopi militari, aprendo ad una collaborazione con il Pentagono, il dipartimento della Difesa. Tutto nel giro di una settimana. Una svolta apparentemente netta per l’azienda che anni fa si era presentata al mondo con il motto «don’t be evil», non fare il cattivo. Il motto ufficiale è cambiato da un po’ ma l’accelerazione dei giorni scorsi faceva impressione lo stesso. Al chè uno dei 180 mila dipendenti dell’azienda di Mountain View è andato sulla bacheca interna – Memegen, un generatore di meme aziendali -, ha postato l’immagine di un soldato nazista e ha chiesto: «Siamo diventati noi i cattivi?».
La risposta però è un’altra domanda: quando è successo? E perchè non ce ne siamo accorti prima?
Oggi è troppo facile prendersela con il web e con i social, ma un tempo non era così. Era tutto un coro che inneggiava alle «magnifiche sorti e progressive» del digitale. Ancora all’inizio del 2009, intervistata per i suoi 100 anni, la scienziata Rita Levi Montalcini scolpiva una epigrafe: «La più grande invenzione del ‘900? E me lo chiede? Internet». Ecco, per lei non c’era neanche bisogno di chiederlo: la più grande invenzione del secolo passato non erano la penicillina o i vaccini; non erano gli aerei o il cinema. Era Internet, ovviamente.
Questo era lo zeitgeist, lo spirito del tempo. Se quella che abbiamo vissuto per un paio di decenni è stata davvero una allucinazione collettiva o se invece ad un certo punto chi dava le carte ha truccato il mazzo, proveremo a scoprirlo; ma intanto va riconosciuto che ci siamo cascati tutti o quasi. Persino papa Francesco. É accaduto il 23 gennaio 2014, in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, quando definì Internet – addirittura – «un dono di Dio». L’espressione non era nuova e non era del pontefice, ma del cinese Liu XiaoBo che nel 2010, mentre era in carcere, aveva vinto il premio Nobel per la Pace. Liu XiaoBo era un importante intellettuale che aveva insegnato in diverse università occidentali: tornato in Cina nel 1989 per sostenere la rivolta di piazza Tienanmen, aveva fatto avanti e indietro in carcere diverse volte, fino al 2009, quando ci entrerà per uscire solo prima di morire di cancro, nel 2017. Nel suo ultimo testo da uomo libero il professore aveva definito Internet «un dono di Dio per la Cina», e si capisce perché: perché doveva sembrargli l’unico strumento per superare la censura e comunicare liberamente (non aveva intuito che invece, al riparo della Grande Muraglia cibernetica, il regime stava costruendo un sistema di sorveglianza di massa come non si era mai visto prima).
Quell’espressione, «dono di Dio», che inizialmente era appunto circoscritta alla situazione cinese, grazie al documento del papa divenne universale. Un dono di dio, per tutti. Per tutti forse, ma non per sempre. Qualche giorno fa, sempre nella Giornata delle comunicazioni sociali, stavolta il pontefice ha invertito la rotta. Ha detto che i sistemi digitali «profilandoci secondo le logiche del mercato modificano la nostra percezione della realtà». E ancora, a proposito delle interazioni sui social: «Sembra allora che individuare un nemico contro cui scagliarsi verbalmente sia indispensabile per affermare sé stessi. E quando l’altro diventa nemico, quando si oscurano il suo volto e la sua dignità per schernirlo e deriderlo, viene meno anche la possibilità di generare speranza». Tutti i conflitti «trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti». Un dono di Dio? Non più.
Eppure non doveva andare così. Internet e il web non erano nati con questo scopo. E per moltissimo tempo sono sembrati il più formidabile strumento di progresso dell’umanità dai tempi dell’invenzione della carta stampata o dell’elettricità. Gli esempi sono moltissimi, ma uno fu addirittura in mondovisione, davanti a novecento milioni di persone. Nel 2012, alla cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Londra, fra la regina d’Inghilterra e James Bond a un certo punto, in mezzo allo stadio, era apparso un signore di mezza età dinoccolato, appena impacciato, che sul suo personal computer aveva scritto «world wide web». E poi aveva aggiunto: «And this is for everyone», è per ciascuno di voi. Era Tim Berners Lee, il fisico che nel 1989, a 34 anni, mentre stava al Cern di Ginevra come stagista, nel tempo libero aveva scritto i protocolli del web e li aveva letteralmente donati al mondo perché il mondo fosse migliore. Non so se Internet è stato davvero un dono di Dio, ma il web è stato sicuramente un dono di Tim Berners Lee. Un clamoroso atto di generosità.
Alcuni sottolineano che in realtà la realizzazione di una rete di computer tramite la quale le persone potessero dialogare all’inizio aveva avuto lo scopo di dotare gli Stati Uniti di uno strumento per resistere in caso di attacco nucleare sovietico. L’idea era disporre di una rete che continuasse a funzionare anche se un nodo veniva distrutto. Ma se questa era l’origine dei fondi del progetto di ricerca governativo da cui prese il nome la prima rete che poi diventerà Internet (Arpanet, ovvero Advanced Research Project Agency Network); non era certamente militare lo spirito che animava i pionieri che fecero l’impresa «andando a letto tardi», come titola il più dettagliato libro sulla storia di Internet (Where the Wizards Stay Up Late). In loro c’era piuttosto la visione utopica di Xanadu, ovvero la creazione di un grande archivio digitale del sapere del mondo di cui si era iniziato a favoleggiare all’inizio degli anni ‘60. Sembrava utopia pura, ma poi l’hanno fatto davvero.
Come è noto il primo storico collegamento avvenne, sulla costa Ovest degli Stati Uniti, alle 10 e 30 di sera del 29 ottobre 1969. Il messaggio per errore fu semplicemente «Lo», al posto di «Login», perchè il viaggio del primo «pacchetto di dati» dall’università della California a Los Angeles (Ucla) al Centro di Ricerca di Stanford (Sri), cinquecento chilometri appena, si interruppe. Ma a ripensarci oggi era profetico: «Lo», in inglese si usa nell’espressione «Lo and Behold», ovvero «guarda e trattieni il fiato» (sottotesto: che sta per cambiare tutto). A capo del team c’era un ingegnere elettrico, che ai tempi aveva 35 anni, Leonard Kleinrock. Mezzo secolo più tardi, quando gli utenti di Internet nel mondo avevano superato il muro dei quattro miliardi e gli effetti collaterali, non tutti benefici, della rivoluzione digitale iniziavano ad essere evidenti, un giornalista del New York Times lo andò a trovare per festeggiare l’anniversario e invece di un trionfatore pronto a condividere gli aneddoti migliori, trovò un anziano signore afflitto dai sensi di in colpa. Disse: «Eravamo soltanto un gruppo di ingegneri che doveva risolvere un problema, non pensavamo mai che un giorno questa cosa sarebbe stata guidata dal profitto, e infatti non brevettammo nulla». Neanche loro, come Tim Berners Lee. E poi ha ammesso sconsolato: «Il lato oscuro di Internet noi non lo abbiamo visto arrivare, non faceva parte della nostra mentalità».
Il «lato oscuro di Internet» rimanda alla celebre risposta che nel 2010 il guru del mitico Medialab del Mit di Boston Nicholas Negroponte diede ad un giornalista: «Il lato oscuro di internet? É non averlo». Un’altra epigrafe. Altro che diritto alla disconnessione, altro che appelli a tenere gli schermi lontani dai bambini, altro che fake news. Quelli erano gli anni in cui l’obiettivo principale di tutti i governi era portare la banda larga ovunque e Internet da molti veniva considerato addirittura un diritto costituzionale. Quell’anno un giurista raffinato come Stefano Rodotà, grande conoscitore della Rete, avanzò la proposta di modificare l’articolo 21 della Costituzione aggiungendo un comma, questo: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale». (La proposta non venne mai approvata, ma quell’articolo aprirà il «Bill of Rights» che una commissione della Camera dei deputati varò qualche anno dopo, e se ne tornò a parlare nel 2019 quando il premier Giuseppe Conte disse che esisteva «un diritto a Internet gratis» e il vice premier Di Maio si lanciò in una strampalata proposta «per garantire a tutti 30 minuti gratuiti al giorno». Chiusa parentesi).
Chiariamo: la sbornia tecno ottimista non fu un problema italiano ma generalizzato. Persino le Nazioni Unite nel 2012 avevano approvato una risoluzione in questo senso. E poi c’erano gli Stati Uniti a guidare questa rivoluzione, filosofica prima ancora che tecnologica: nel 2008 Barack Obama era diventato il primo presidente a usare sistematicamente la rete e i social per fare la campagna elettorale dando a quegli strumenti un’aura di santità. «Sono stato il primo presidente digitale, si può tranquillamente argomentare che non sarei stato eletto senza i social network», ha ricordato Obama un paio di anni fa. Ma va detto che i social di allora non erano ancora diventati lo stesso strumento che poi porterà due volte Donald Trump alla Casa Bianca. La profilazione degli utenti e la segmentazione sistematica dei contenuti per privilegiare quelli che generano paura e rabbia, non esistevano. La «grande strategia social» di Obama in pratica fu la creazione di un sito web e la raccolta, tramite Facebook, di donazioni e l’organizzazione dei volontari. Tutto qui. Il suo profilo Twitter, dove ebbe subito milioni di follower, non era una clava per attaccare gli avversari, ma uno strumento molto istituzionale. Per i primi tre anni lo maneggiò soltanto il suo team di comunicazione. Il primo tweet autentico, siglato «Bo», è addirittura del 2011, in occasione della Festa del papà: «Being a father is sometimes my hardest but always my most rewarding job…». In tutto 122 caratteri che il New York Times celebrò con un articolo festoso manco fosse una poesia di Allen Ginsberg.
Fu grazie all’effetto Obama che nel mondo si iniziò a parlare di «tech democracy». di una nuova stagione della democrazia potenziata da Internet, il cosiddetto «open government», governo aperto, aperto alla partecipazione diretta dei cittadini e al loro controllo (da cui, in Italia, la deriva grillina con le dirette streaming di ogni riunione e la raccolta degli scontrini delle spese degli eletti). La paladina di questa visione era Beth Noveck, una giovane professoressa del New Jersey che aveva pubblicato un saggio intitolato: «Il governo wiki: come la tecnologia può migliorare il governo, rafforzare la democrazia e rendere i cittadini più potenti». Ero presente nel 2011 a New York quando ad un summit infiammò una piccola folla di idealisti con queste parole: «La prossima grande innovazione in democrazia? La tecnologia». Capita a molti di fare previsioni che si rivelano sbagliate, questo è un caso di scuola.
Da allora infatti è cambiato tutto e non come avevamo previsto. Sono pochissimi quelli che possono salire in cattedra, guardare il disastro che ci circonda e vantarsi: «Ve l’avevamo detto». Sono pochi: lo scrittore bielorusso Evgeny Morozov e qualcun altro. Gli altri sembrano sperduti, increduli. Lo stesso Barack Obama, nel 2022, parlando ad un convegno all’università di Stanford sull’impatto della tecnologia sulla democrazia, anche se il suo amico Joe Biden aveva bloccato la rielezione del «campione del mondo di Twitter» Donald Trump, aveva ormai smesso i panni del pifferaio magico digitale. Quel giorno, dopo un discorso molto critico sulle distorsioni della realtà create dagli algoritmi dei social, Obama ha concluso: «Vogliamo accettare il declino della nostra democrazia o vogliamo provare a fare di meglio?». Un dilemma con un forte contenuto di ottimismo, perché presuppone l’idea che sia ancora possibile fare reverse engineering e tornare indietro.
Forse sì. Ma per farlo occorre rispondere alla domanda iniziale: cosa, esattamente, è andato storto?
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Nella foto in alto, di Kristina Romanova, la grande “F” di Facebook campeggia al centro dell’allestimento “CONVERSION” di Recycle Group (Andrey Blokhin e Georgy Kuznetsov) alla 56a Biennale di Venezia del 2015.
L’installazione, realizzata all’interno dell’antica chiesa di Sant’Antonin, paragonava la globalizzazione delle reti di informazione alla conversione a una nuova “religione” in cui l’ambito delle informazioni disponibili nello spazio virtuale è una nuova divinità presiedente.
L’allestimento riproduce le rovine di una chiesa del XXI secolo con sculture semi abbandonate dei “santi”, i predicatori delle nuove tecnologie, e folle di personaggi che cercano ossessivamente di accedere al web con i loro dispositivi mobili.
L’atmosfera di adorazione religiosa delle tecnologie era rafforzata da cartelloni pubblicitari raffiguranti le istruzioni, i comandamenti per l’uso dei principali programmi e server. (NdS)