Riccardo Luna, Corriere della sera, 17 III 2025
Facebook, da accogliente ritrovo di vecchi amici a luogo di «distorsione collettiva della realtà»: cosa è andato storto
In origine era un luogo piacevole, dove imperava la gentilezza (del resto si era tra amici). La rivoluzione inizia con l’arrivo di Sheryl Sandberg. Poi l’introduzione dei Like e infine il colpo di grazia: l’EdgeRank, «la formula che lo rende ancora più intrigante» e una vetrina sul mondo sempre più distorta
Cos’è andato storto? Come è successo che il primo social network, nato per «il libro delle facce» che aveva lo scopo di riunire vecchi amici e creare rapporti virtuali con nuovi sia diventato una vetrina che distorce la realtà? Quand’è, precisamente, che la storia è cambiata? Ecco la seconda puntata di una serie che proverà a rispondere a questa domanda.
Eppure Facebook non è sempre stato così. Ricordate com’era all’inizio, quando divenne disponibile a tutti? Era il 26 settembre 2006 e, oggi lo possiamo dire, fu davvero l’inizio di una nuova era. Prima, per oltre diciotto mesi, “Thefacebook” (questo il nome originario: il libro delle facce, quello che nelle scuole americane ha le facce di tutti gli studenti), prima era stato solo un progetto studentesco. Al debutto, nel febbraio 2004, era aperto solo per gli studenti di Harvard, l’università dove Mark Zuckerberg studiava; poi si era allargato a Stanford, Columbia e Yale e ad altri atenei della Ivy League, l’esclusiva costa nord orientale degli Stati Uniti. Ebbe subito una crescita esponenziale, sebbene disponesse di un target così circoscritto: alla fine del primo anno aveva già raggiunto l’incredibile traguardo di un milione di utenti; allora si era aperto alle scuole superiori di tutto il mondo (ottobre 2005) e solo il 26 settembre 2006 aveva aperto le porte «a chiunque avesse più di 13 anni e un valido indirizzo email». Come adesso.
Di fatto, insomma, Facebook come lo conosciamo ha meno di venti anni e all’inizio era molto, ma molto diverso. Com’era? Era un posto normale, addirittura piacevole; accogliente, eccitante a volte, ma nel senso migliore del termine. Per esempio era eccitante ritrovare all’improvviso vecchi compagni di scuola che si erano persi di vista una vita fa e che improvvisamente erano solo ad un clic di distanza: bastava cliccare sul pulsante «add as a friend, aggiungi come amico» per far tornare indietro il calendario e rivivere i bei tempi («che fine hai fatto?», un tormentone). Oltre a ciò, presto ci abituammo al rito quotidiano di partecipare ad appassionanti discussioni con gli amici e con gli amici degli amici sulla qualunque senza timore di essere sbranati al primo errore o al primo dissidio come accade adesso. La vita social era ancora un mondo nuovo e ci si addentrava nelle bacheche digitali degli altri in punta di piedi, con circospezione e un vago senso di rispetto. Non si ricordano grandi liti e non avevamo bisogno di bloccare legioni di troll per vivere sereni: certo, il tempo potrebbe averci fatto idealizzare quel periodo, è possibile; ma oggi si ha quasi la certezza che su Facebook imperasse una regola, o meglio, una postura che col tempo si è completamente perduta: la gentilezza. Del resto stavamo fra amici, perché non avremmo dovuto essere gentili?
Inoltre non aggiungevamo «amici» alla nostra rete solo per fare numero e diventare degli influencer con tanti followers, anzi gli influencer neppure esistevano, sarebbero arrivati con Instagram; e i follower c’erano ma stavano solo su Twitter, un’altra storia. E soprattutto non scrivevamo post andando a compulsare ogni mezz’ora le visualizzazioni che oggi misurano il nostro successo digitale, qualunque cosa questo significhi, anche perché non erano ancora in mostra e quindi non c’era questa gara quotidiana che facciamo con noi stessi e gli altri per far salire il nostro contatore digitale come se la vita fosse diventata il flipper con cui giocavamo da giovani. Non dico che fossimo migliori prima, assolutamente no, ma sicuramente c’era in rete un minor narcisismo. Non era una nostra scelta, sia chiaro, il narcisismo è un tratto ineliminabile della natura umana; ma non veniva alimentato dalla tecnologia, non veniva incoraggiato. E questa cosa avveniva by design: la piattaforma infatti non era stata progettata per il culto della nostra personalità e neanche per sfruttare le nostre vulnerabilità psicologiche (e far diventare in tal modo sempre più ricchi il fondatore e i suoi azionisti).
Ma ad un certo punto la storia, di Facebook ma anche la nostra, è cambiata. Anzi, non è soltanto cambiata. Si è ribaltata. Quando? Forse la prima svolta c’è stata il 24 marzo 2008 quando Mark Zuckerberg assunse Sheryl Sandberg e praticamente le diede il timone dell’astronave che stava costruendo nominandola chief operating officer. Ovvero il mega direttore di tutte le operazioni, subordinata soltanto al fondatore e capo supremo («capo supremo» non è una esagerazione: all’epoca il biglietto da visita di Mark recava l’amabile scritta «I’m the Ceo, bitch!», che potremmo tradurre come «sono io il capo, testa di cazzo!»). Per dare un’idea dell’impatto che ebbe l’arrivo di Sandberg sull’azienda, se guardiamo al fatturato e al profitto, Facebook oggi è mille volte più grande di come era quando fu assunta. Immaginate un paese che in meno di venti anni aumenti il suo Pil e il suo surplus di bilancio di mille volte. Mille volte: accade solo se improvvisamente nei tuoi confini scopri una gigantesca miniera d’oro o un giacimento di petrolio. E in effetti è successo proprio questo. A Facebook ancora non lo sapevano ma nei server da dove erogavano un servizio gratuito globale che presto sarebbe diventato essenziale, stavano per trovare un nuovo tipo di petrolio: i nostri dati.
Torniamo alla primavera del 2008. Nel quartier generale, che ai tempi stava ancora a Palo Alto (il trasferimento a Menlo Park sarebbe avvenuto più tardi), c’erano in tutto poco più di duecento giovanissimi nerd, o se preferite, smanettoni, compreso «Zuck», che giravano nei corridoi in felpa col cappuccio e infradito; e poi c’era Sheryl Sandberg che era un po’ «l’adulto nella stanza». Lei aveva 39 anni, Zuckerberg 23: non era come una mamma quindi, ma sicuramente come una sorella maggiore. Fino a qualche mese prima era stata uno dei vice presidenti di Google dove aveva contribuito a costruire il motore commerciale di quella impressionante macchina di soldi che era diventata l’azienda di Mountain View, la cittadina della Silicon Valley dove ha sede Google.
La leggenda narra che Mark e Sheryl si siano conosciuti ad una festa di Natale nel 2007. Lei aveva da poco lasciato il lavoro ed era in cerca di una nuova sfida, lui si stava chiedendo come fare a monetizzare il successo travolgente della sua startup, ovvero cosa farci di tutti quegli iscritti ad un servizio gratuito e ancora senza un modello di business. Come guadagnarci? Avevano iniziato a frequentarsi e probabilmente avevano scoperto di avere in comune il fatto di avere entrambi studiato ad Harvard, solo che lei si era laureata in economia summa cum laude e con la menzione di miglior studente dell’anno; mentre Zuckerberg aveva lasciato gli studi subito dopo aver lanciato Facebook (la laurea ad Harvard l’avrebbe però presa dieci anni più tardi, honoris causa, quando era già uno degli uomini più potenti del mondo. Una laurea in legge che per uno che si è sempre vantato di infrangere le regole – «move fast and break things» era il suo motto – oggi appare davvero fuori luogo).
Avevano in comune anche la conoscenza con il leggendario economista Larry Summers, che oggi, dopo un lunghissimo cursus honorum, è presidente di OpenAI, la più importante startup di intelligenza artificiale del mondo, quella di Sam Altman e ChatGpt. Nel 1991 Summers era stato il relatore della tesi di laurea della giovane Sandberg rimanendo folgorato dal talento di lei; e così quando divenne Segretario del Tesoro, con Bill Clinton alla Casa Bianca, la nominò chief of staff (la famosa rete di contatti che la Sandberg mise al servizio di Facebook fu creata in quegli anni a Washington). Finita la stagione della politica, Summers tornò ad Harvard come presidente e stava ancora lì mentre Zuckerberg nella sua cameretta aveva appena creato “thefacebook”; e cosi quando i gemelli Winklevoss andarono da lui a protestare dicendo che Mark gli aveva rubato l’idea!, il professore li liquidò con la famosa frase: «I giovani non vengono qui per trovare un lavoro, vengono qui per inventarsi un lavoro» (o almeno questo è ciò che lo sceneggiatore Aaron Sorkin gli fa dire nel film The Social Network, uscito nel 2010).
Erano gli anni in cui pensavamo che le startup, grazie alla rivoluzione digitale, avrebbero creato tutta l’occupazione di cui avevamo bisogno dando a tutti un’economia più prospera e un mondo migliore. Internet era ancora «un’arma di costruzione di massa» e di questa nuova religione Mark Zuckerberg era uno degli apostoli più brillanti.
Ma sto divagando. Torniamo alla trasformazione di Facebook. Se l’arrivo della Sandberg fu la prima mossa, la seconda fu la creazione del tasto «like, mi piace», che debuttò sulle nostre bacheche digitali undici mesi più tardi, il 9 febbraio 2009. Sembrava soltanto una nuova cosa carina in realtà era molto di più. Il successo commerciale di Google lo aveva dimostrato: se è vero che i dati degli utenti erano il nuovo petrolio – perché consentivano di profilarci meglio in cluster da rivendere agli inserzionisti pubblicitari che così possono mostrare i loro annunci solo a chi è realmente interessato -, serviva uno strumento attraverso il quale fossimo portati ad esprimere le nostre preferenze in continuazione. Uno strumento attraverso il quale far sapere, registrare, ogni giorno cosa ci piaceva e cosa no. Chi siamo davvero.
Si narra che fu Mark Zuckerberg in persona a inventare «il pollice blu» mentre il suo team dibatteva su quale immagine associare al gradimento di un post senza che l’utente scrivesse soltanto «mi piace, sono d’accordo» (cosa che ai tempi rendeva la sfilza di commenti troppo monotona per essere minimamente eccitante). Qualcuno aveva proposto l’immagine di una bomba con la miccia accesa, un altro la scritta «awesome, fantastico»; ma Zuckerberg che ha il mito dell’Antica Roma, che considera Enea «il primo startupper della storia» e che si sente un po’ un nuovo Cesare Augusto, se ne uscì col pollice, come quello che l’imperatore al Colosseo poteva girare verso l’alto o verso il basso determinando la sorte del gladiatore. Sul significato del pollice si è poi scoperto che ci sono alcuni falsi miti (miti che il film il Gladiatore ha confermato) ma non è questa la sede per parlarne: qui ci serve soltanto aggiungere un mattoncino alla storia di Facebook e dei social network.
La trasformazione dei social network in un Colosseo quotidiano inizia lì, con l’introduzione del tasto «mi piace».
La terza mossa fu l’introduzione di EdgeRank, letteralmente «la classifica delle interazioni» fra noi utenti e i post. In pratica si tratta dell’algoritmo che per anni ha deciso quali post ciascuno di noi avrebbe visto ogni volta arrivando sulla piattaforma. All’inizio per Facebook, e per tutti gli altri social, l’unico criterio era cronologico: il nostro «feed», il flusso di post che ci venivano proposti, era temporale. In pratica vedevamo quello che gli amici avevano pubblicato in ordine cronologico. Ricordate quando postavamo la foto del cappuccino e del cornetto per dare il buongiorno a tutti, anzi il «buongiornissimo», e tutti i nostri amici la vedevano? Ecco, da tempo non è più così. Quello era il Facebook degli inizi. Oggi quello che vediamo lo decide un algoritmo e lo fa in base ad altri criteri. E ad altri obiettivi, che non sono esattamente «connettere tutte le persone del mondo» come ci è stato ripetuto fino allo sfinimento. Ecco perché non vediamo più tanti cappuccini e cornetti.
Quando si usa la parola algoritmo molti pensano a qualcosa di misterioso, di esoterico o religioso, addirittura: «L’ha deciso l’algoritmo!», diciamo, come se fosse una divinità. Ma volendo semplificare molto, l’algoritmo è soltanto una formula o, meglio, una ricetta, predisposta da un essere umano per automatizzare certi processi ed essere certi che si producano certi risultati. Per esempio la ricetta della pasta alla carbonara (pancetta+uova+pecorino) è una specie di algoritmo: indica gli ingredienti, le quantità e l’ordine in cui vanno aggiunti e anche il modo in cui vanno trattati (cucinati, sbattuti, soffritti eccetera).
La ricetta di EdgeRank è questa: affinità moltiplicata per il peso moltiplicati per il tempo (o meglio, l’invecchiamento di un post).
Seguitemi perché così finalmente capiamo cosa abbiamo visto sui social fin qui. L’affinità, o l’affinity score (u) calcola quanto l’utente è interessato ad un altro utente e quindi valuta quando e come ha interagito in passato con i contenuti che l’altro ha postato; è un fattore unidirezionale, nel senso che il suo valore aumenta anche se uno legge sempre i post dell’altro e l’altro non ricambia e non ne guarda nemmeno uno. Esempio: se io seguo una star ma quella non sa nemmeno chi sono, io vedrò tutti i post della star e non accadrà il contrario. Il secondo fattore, weight (w) è il peso ed è probabilmente il più importante: misura il tipo di interazione che abbiamo avuto in passato con certi contenuti: hai commentato o condiviso un post su un certo argomento? Quando in rete ci sarà un altro post sullo stesso argomento, questo valore aumenterà. Nel “peso” sono contenute un sacco di altre variabili fondamentali, ma ci torniamo dopo. Il terzo fattore è il tempo, o meglio l’obsolescenza, time decay (d), ed è molto intuitivo: più un post è vecchio è meno è rilevante (ma se improvvisamente dopo tanto tempo per qualche ragione quel post torna attuale, il “time decay” si azzera).
Eccola insomma, la formula di EdgeRank («la misteriosa formula che rende Facebook ancora più intrigante» come titolò allegramente un importante blog della Silicon Valley quando venne presentata al pubblico, il 22 aprile 2010):
Σuwd
Per un decennio EdgeRank è stato il pannello di controllo delle nostre vite social: a Menlo Park in qualunque momento potevano decidere di farci vedere più foto e meno video, più news e meno storie, più gattini e meno cappuccini, semplicemente usando quell’algoritmo. EdgeRank è stato il regolatore di buona parte del traffico online e quindi in un certo senso delle nostre vite con effetti di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. I danni collaterali. Il problema non è aver visto più o meno inserzioni pubblicitarie in target con i nostri gusti; quel fatto può persino essere sensato, comodo. Il problema è stata una progressiva distorsione dell’idea di mondo che abbiamo e che è tracimata dall’ambito dei social network contagiando anche istituzioni, i famosi produttori di contenuti e informazione, che avrebbero dovuto essere invece i garanti della «verità dei fatti».
Prendiamo i giornali: per alcuni anni gran parte del traffico ai siti web dei giornali arrivava da Facebook. Ci sono addirittura testate online che sono nate e hanno prosperato sul presupposto di avere dei contenuti «adatti a Facebook». Questo dipendeva – semplificando un po’ – dal fatto che nell’algoritmo di EdgeRank era stato dato più peso alle news rispetto per esempio ai contenuti postati «dagli amici». Non era un caso, si trattava dell’attuazione di precisi accordi commerciali con gli editori i quali prima avevano minacciato di fare causa a Facebook per farsi pagare il traffico legato alle news condivise sulle nostre bacheche; e poi si erano convinti che fosse meglio «scendere a patti con il nemico» e portare a casa qualche soldo e un po’ di traffico. Epperò questa cosa ha anche cambiato la natura stessa dei giornali, li ha fatti diventare altro: per intercettare porzioni di traffico sempre maggiori, indispensabili a sopravvivere visto che nel frattempo Google e Facebook si spartivano la stragrande maggioranza degli investimenti pubblicitari online, i giornali si sono facebookizzati, hanno cercato di fare contenuti adatti all’algoritmo di Facebook. Risultato: per troppo tempo l’obiettivo di molte redazioni è stato fare contenuti “virali”. E quindi largo a titolazioni “clickbait”, che portavano il lettore a cliccarci sopra promettendo un contenuto che in realtà non c’era o era stato molto esagerato; e soprattutto predilezione per contenuti “estremi”, scelti solo per catturare la nostra attenzione.
Finchè è durata, ovvero fino a quando Mark Zuckerberg ha decretato che le news non gli interessavano più e quindi le ha declassate toccando una manopola del suo algoritmo («i nostri utenti non vengono da noi per le news o per i contenuti politici», 1 marzo 2024), i siti web dei giornali presentavano ogni giorno una sfilza di delitti più o meno efferati manco fossimo a Gotham City. Chiariamo: la cronaca nera è da sempre molto “virale”, attira l’attenzione, non è colpa di Facebook certo; ma il risultato di questa corsa dei giornali a privilegiare contenuti “adatti a Facebook” ha creato la percezione, falsa, di vivere in un mondo molto più pericoloso di quello che in realtà è. Giorno dopo giorno “l’allarme sicurezza” è entrato nelle nostre vite, è diventato lo sfondo delle nostre giornate, la colonna sonora dei nostri pensieri, sebbene la realtà fosse non leggermente diversa ma esattamente il contrario. E questo ha contribuito al successo di quei partiti politici che hanno deciso di lucrare su una paura largamente infondata («Fuori ci sono i barbari, vi proteggiamo noi. Alziamo dei muri, chiudiamo le frontiere e comprimiamo un po’ di libertà personali in nome dell’ordine pubblico»).
É bene fermarsi su questo punto perché è decisivo. Viviamo davvero in un mondo sempre più pericoloso (Trump a parte)? Lo scorso anno in Italia gli omicidi sono stati circa 300, quasi uno al giorno. Sono tanti? Sono pochissimi. Venti anni fa erano circa il doppio; quarant’anni fa il quadruplo. Nella storia d’Italia non sono mai stati così pochi e quel dato, paragonato al totale della popolazione, è uno dei più bassi al mondo. Uno-dei-più-bassi-al-mondo. Lo sapevate? Probabilmente no. Gli omicidi sono in calo netto anche nell’Unione europea (circa 4000 mila lo scorso anno, erano 13 mila nel 2004); e sono rimasti stabili negli Stati Uniti sebbene siano in calo rispetto a quarant’anni fa (da 20 mila a 16 mila). Restando all’Italia la stessa dinamica si verifica per i furti, (meno 30 per cento rispetto al 2004); per le rapine (dimezzate nello stesso periodo di tempo); e per i morti per incidenti stradali (meno 70 per cento).
Non va tutto bene, ovviamente: sono in forte crescita le truffe, soprattutto quelle online; sono sostanzialmente stabili i morti di cancro, nonostante i progressi della scienza; e non calano i suicidi e questo ci dice qualcosa sul mondo in cui viviamo e su come lo percepiamo. Ma ci torneremo. Prima fissiamo questo concetto: Facebook e la facebookizzazione di molti giornali hanno creato l’errata percezione di un allarme sicurezza che nei numeri non esiste o – quantomeno – non nella misura percepita. É un esempio della famosa «distorsione collettiva della realtà» di cui parla il papa.
Perché è successo? Per capirlo è necessario introdurre [nella prossima puntata] un altro protagonista di questa storia: l’engagement.
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Nella foto in alto la grande “F” di Facebook (quasi una croce) campeggia al centro dell’allestimento “CONVERSION” di Recycle Group (Andrey Blokhin e Georgy Kuznetsov) alla 56a Biennale di Venezia del 2015.
L’installazione, realizzata all’interno dell’antica chiesa di Sant’Antonin, paragonava la globalizzazione delle reti di informazione alla conversione a una nuova “religione” in cui l’ambito delle informazioni disponibili nello spazio virtuale è una nuova divinità presiedente.
L’allestimento riproduce le rovine di una chiesa del XXI secolo con sculture semi abbandonate dei “santi”, i predicatori delle nuove tecnologie, e folle di personaggi che cercano ossessivamente di accedere al web con i loro dispositivi mobili.
L’atmosfera di adorazione religiosa delle tecnologie era rafforzata da cartelloni pubblicitari raffiguranti le istruzioni, i comandamenti per l’uso dei principali programmi e server. (Nota dello Studio)