Alice Scaglioni, Corriere della sera, 27 III 2020
IL DOPO CORONAVIRUS? DAI NEGOZI ALLE VACANZE, LE COSE CHE (FORSE) NON TORNERANNO PIU’ COME PRIMA
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L’emergenza sanitaria legata al coronavirus ha stravolto prima la Cina, ora l’Italia e altri Paesi europei. Il virus corre veloce, è già arrivato negli Stati Uniti, e sta modificando le abitudini di tutti. Per scelta o per obbligo, come è nel caso del nostro Paese, o come lo è stato per gli abitanti di Wuhan, costretti a rimanere a casa nella speranza di fermare l’avanzata del contagio. Ma il risultato è il medesimo: la normalità, per come la conoscevamo, è momentaneamente scomparsa. Una cena fuori, un aperitivo con gli amici, un weekend a sciare: niente di tutto questo è più possibile, e persino i gesti che davamo per scontati (come fare la spesa o la colazione al bar prima di recarsi al lavoro) non lo sono più. Anzi, hanno acquisito un nuovo significato (e nuove regole). Quando tutto questo sarà finito – perché finirà – cosa ne sarà del mondo che abbiamo conosciuto? Per Francesco Daveri, economista e direttore del programma MBA della Sda Bocconi, la fine della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta è già nelle cose. «La prima considerazione da fare è ipotizzare se ci sarà un ritorno o no alla normalità – dice Daveri –. Sarà possibile tornare a stare insieme in contesti collettivi, come era fino a un mese fa? Noi siamo animali sociali, e vediamo naturale ritrovarsi in contesti del genere, per socializzare e per unirsi, ma tutte queste possibilità non possono più essere date per scontate. Troveremo delle forme per poter continuare a farlo, ma rimarrà probabilmente una qualche forma di restrizione auto imposta alle nostre abitudini».
C’è poi un altro punto da tenere a mente: la scoperta della tecnologia. A causa dell’emergenza coronavirus tutti hanno avuto modo di conoscere e usare la tecnologia di massa, che consente azioni che prima erano quasi esclusivamente svolte «in presenza», come comprare un abito sartoriale, oppure fare lezione. Non perché non ci fossero anche prima le possibilità di ricorrere alla tecnologia, ma perché non era necessario. Per alcuni ambiti però, secondo Daveri, rimarrà il desiderio di toccare e di vivere un’esperienza fisica: non scompariranno i negozi, ma è probabile che si specializzino in nicchie che accontentino una determinata clientela.
Quale sarà l’impatto di questa pandemia sulle nostre vite dipenderà dall’effetto che scaturirà una volta che tutto questo sarà finito: ci sarà la paura di ritornare alla vita di prima o un’esplosione di voglia di normalità, come accade dopo la fine di una guerra? «Un po’ come è accaduto nel 1991 e nel 2003 in Iraq, o dopo il terremoto di Haiti, potrebbe esserci un’esplosione di Pil. Se una pandemia assomiglia alla guerra, non si sa: la guerra quando finisce, è finita davvero, mentre una pandemia può avere una “coda”. Il rischio è che questo ritorno alla normalità sia meno rapido. Ma sembra che gli ingredienti ci siano».
Oltre alle abitudini dei singoli cittadini, o alla loro più o meno forte voglia di socialità, ci sono altri aspetti della vita quotidiana che potrebbero subire dei cambiamenti. In primis, i ristoranti, l’andare a teatro o i meeting con i colleghi. Modi per divagare o per lavorare, che ad oggi hanno subito uno stop forzato e un cambio di passo non indifferente: molti ristoranti si sono convertiti al servizio a domicilio, per la gioia dei loro clienti, e le riunioni si sono digitalizzate grazie alle piattaforme che tutti abbiamo imparato a conoscere. Qual è il rischio? Quello di sfociare in una “high cost society”, che andrebbe a sottolineare ancora di più uno dei trend che è già in atto da qualche tempo, secondo Daveri, ossia le abitudini di consumo di una upper class che si inventa sempre modi più esclusivi di consumare. Se si arriverà a non poter più andare nei supermercati affollati, come stile di vita basato sulla prevenzione di nuove epidemie, la società che si era abituata allo slogan «prezzi bassi tutti i giorni» rischia che i prezzi così bassi non lo siano più. Se quello che prima era la normalità (come fare la spesa) diventerà più complesso da attuare, prenderanno piede nuove forme più costose di servizi. Ma si tratta, per ora, solo di ipotesi.
A dover fronteggiare un probabile cambio di passo notevole sarà il settore dell’intrattenimento e degli eventi. Non sarà facile reinventare incontri e convention aziendali, ma anche sfilate o feste, perché gran parte del loro «plus» è la possibilità di compresenza con lo speaker, gli ospiti o gli abiti (nel caso delle sfilate). In questo caso l’intero settore dovrà essere rigirato, secondo Daveri, mentre per quanto riguarda la ristorazione probabilmente si tratterà di completare un business model che già esisteva, vista la grande popolarità dei servizi di delivery ben prima dell’emergenza. E che ne sarà del teatro? «Gli eventi potranno essere più piccoli, coinvolgere meno persone, con compagnie itineranti che serviranno una audience più raccolta: ci sarà un’estrema customizzazione dei servizi offerti per andare incontro alle esigenze di numeri sempre più ristretti di persone». Se questo si realizzasse, dovrebbe necessariamente cambiare anche la modalità di erogazione del servizio: potrebbe essere necessario richiedere un maggior numero di repliche degli spettacoli, se il numero delle persone che possono assistere dovesse ridursi notevolmente, quantomeno per riuscire a coprire costi fissi (come quelli per le location o lo stipendio dei lavoratori).
Che dire poi del lavoro? Questa corsa obbligata allo smartworking cambierà il modo di lavorare in maniera permanente? Per Daveri il passaggio al lavoro agile di massa non può essere dato per scontato. «Le esperienze di smartworking che conoscevamo erano solitamente piuttosto limitate: un lavoratore stava a casa uno o due giorni a settimana. Organizzare uno smartworking perché un ufficio non esiste più è molto diverso – precisa l’economista –. Rendere più produttivo lo smartworking di massa vuol dire adeguare le competenze dei lavoratori e la strumentazione offerta».
È indubbio che, infine, il settore che per primo è stato colpito, e che per ultimo si riprenderà, è il turismo. Mentre il manifatturiero può riprendersi grazie all’ecommerce inizialmente, le aziende che si occupano di far viaggiare le persone andranno incontro a costi più alti e potranno ripartire solamente quando l’emergenza sarà davvero finita. «Questa pandemia rischia di danneggiare in maniera quasi permanente tutta la filiera del turismo, e anche quella degli eventi – aggiunge il direttore del programma MBA della Sda Bocconi –. È difficile immaginare un ritorno al turismo di massa che si spingerà di nuovo così lontano, ma ci sarà invece una riscoperta dell’Italia e dei luoghi facilmente raggiungibili in macchina». Per Daveri poi, potrebbe cambiare anche il tipo di viaggio effettuato, non solo la meta. «Magari nasceranno aziende che offrono pacchetti sempre più completi, concedendo meno libertà alle persone al momento del viaggio». Il punto, però, rimane sempre quello dei costi: offrire un servizio individualizzato costa di più, e proporlo a milioni di persone sarà una sfida con cui bisognerà confrontarsi.
Cosa sarà dunque del mondo che abbiamo conosciuto? Globalizzato, in cui non ci sono grossi limiti agli spostamenti di persone e cose. «Veniamo da un populismo rampante, aumenterà ancora la domanda di rassicurazione, e quindi chi può fornire protezione? Chi più è vicino, e così ci sarà un ritorno degli Stati nazionali o addirittura di enti ancora più vicini, magari dei comuni – conclude Daveri –. Quello che mi pare è che il mondo continuerà ad essere globale perché la tecnologia continuerà ad esserlo, ma allo stesso tempo potrebbe esserlo sempre meno, perché le interazioni possono portare altre epidemie. Il risultato sarà l’unione di questi due fattori, la tecnologia e una possibilità di interazione moderata».