L’editoriale di Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della Sera, 20 X 2013.
Il potere vuoto di un Paese fermo.
Il fallimento di una classe dirigente.
L’Italia non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi. Parole forti: ma quali altre si possono usare per intendere come realmente stanno le cose? E soprattutto che la routine in cui sembriamo adagiati ci sta uccidendo?
Sopraggiunta dopo anni e anni di paralisi, la crisi è lo specchio di tutti i nostri errori passati così come delle nostre debolezze e incapacità presenti. Siamo abituati a pensare che essa sia essenzialmente una crisi economica, ma non è così. L’economia è l’aspetto più evidente ma solo perché è quello più facilmente misurabile. In realtà si tratta di qualcosa di più vasto e profondo. Dalla giustizia all’istruzione, alla burocrazia, sono principalmente tutte le nostre istituzioni che appaiono arcaiche, organizzate per favorire soprattutto chi ci lavora e non i cittadini, estranee al criterio del merito: dominate da lobby sindacali o da cricche interne, dall’anzianità, dal formalismo, dalla tortuosità demenziale delle procedure, dalla demagogia che in realtà copre l’interesse personale.
Del sistema politico è inutile dire perché ormai è stato già detto tutto mille volte. I risultati complessivi si vedono. Tutte le reti del Paese (autostrade, porti, aeroporti, telecomunicazioni, acquedotti) sono logorate e insufficienti quando non cadono a pezzi. Come cade a pezzi tutto il nostro sistema culturale: dalle biblioteche ai musei ai siti archeologici. Siamo ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee: della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa. E naturalmente ormai rassegnati all’idea che le cose non possano che andare così, visto che nessuno ormai più neppure ci prova a farle andare diversamente. Anche il tessuto unitario del Paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese.
Mai come oggi il Nord e il Sud appaiono come due Nazioni immensamente lontane. Entrambe abitate perlopiù da anziani: parti separate di un’Italia dove in pratica sta cessando di esistere anche qualunque mobilità sociale; dove circa un terzo dei nati dopo gli anni ‘80 ha visto peggiorare la propria condizione lavorativa rispetto a quella del proprio padre. Quale futuro può esserci per un Paese così? Popolato da moltissimi anziani e da pochi giovani incolti senza prospettive?
Certo, in tutto questo c’entra la politica, i politici, eccome. Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di che cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano. Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere? La risposta sta nel numero delle fabbriche comprate dagli stranieri, dei settori produttivi dai quali siamo stati virtualmente espulsi a opera della concorrenza internazionale, nel numero delle aziende pubbliche che i suddetti hanno acquistato dallo Stato, perlopiù a prezzo di saldo, e che sotto la loro illuminata guida hanno condotto al disastro. Naturalmente senza mai rimetterci un soldo del proprio. Né meglio si può dire delle banche: organismi che invece di essere un volano per l’economia nazionale si rivelano ogni giorno di più una palla al piede: troppo spesso territorio di caccia per dirigenti vegliardi, professionalmente incapaci, mai sazi di emolumenti vertiginosi, troppo spesso collusi con il sottobosco politico e pronti a dare quattrini solo agli amici degli amici.
Questa è l’Italia di oggi. Un Paese la cui cosiddetta società civile è immersa nella modernità di facciata dei suoi 161 telefoni cellulari ogni cento abitanti, ma che naturalmente non legge un libro neppure a spararle (neanche un italiano su due ne legge uno all’anno), e detiene il record europeo delle ore passate ogni giorno davanti alla televisione (poco meno di 4 a testa, assicurano le statistiche). Di tutte queste cose insieme è fatta la nostra crisi. E di tutte queste cose si nutre lo scoraggiamento generale che guadagna sempre più terreno, il sentimento di sfiducia che oggi risuona in innumerevoli conversazioni di ogni tipo, nei più minuti commenti quotidiani e tra gli interlocutori più diversi. Mentre comincia a serpeggiare sempre più insistente l’idea che per l’Italia non ci sia più speranza. Mentre sempre più si diffonde una singolare sensazione: che ormai siamo arrivati al termine di una corsa cominciata tanto tempo fa tra mille speranze, ma che adesso sta finendo nel nulla: quasi la conferma – per i più pessimisti (o i più consapevoli) – di una nostra segreta incapacità di reggere sulla distanza alle prove della storia. E in un certo senso è proprio così.
L’Italia è davvero a una prova storica. Lo è dal 1991-1994, quando cominciò la paralisi che doveva preludere al nostro declino. Essa è ancora bloccata a quel triennio fatale: allorché finì non già la Prima Repubblica ma la nazione del Novecento: con i suoi partiti, le sue culture politiche originali e la Costituzione che ne era il riassunto, allorché finì la nazione della modernizzazione/industrializzazione da ultimi arrivati, la nazione del pervadente statalismo. Ma da allora nessuno è riuscito a immaginare quale altra potesse prenderne il posto.
Ecco a che cosa dovrebbe servire quella classe dirigente che tanto drammaticamente ci manca: a immaginare una simile realtà. A ripensare l’Italia, dal momento che la nostra crisi è nella sua essenza una crisi d’identità. Da vent’anni non riusciamo a trovare una formula politica, non siamo capaci d’azione e di decisione, perché in un senso profondo non sappiamo più chi siamo, che cosa sia l’Italia. Non sappiamo come il nostro passato si leghi al presente e come esso possa legarsi positivamente ad un futuro.
Non sappiamo se l’Italia serva ancora a qualcosa, oltre a dare il nome a una nazionale di calcio e a pagare gli interessi del debito pubblico. Abbiamo dunque bisogno di una classe dirigente che – messa da parte la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni è perlopiù servito solo a riempire il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti – si compenetri della necessità di un nuovo inizio. Ripensi un ruolo per questo Paese fissando obiettivi, stabilendo priorità e regole nuove: diverse, assai diverse dal passato. Mai come oggi, infatti, abbiamo bisogno di segni coraggiosi di discontinuità, di scommesse audaci sul cambiamento, di gesti di mutamento radicale.
Mai come oggi, cioè, abbiamo bisogno proprio di quei segni e di quelle scommesse che però, – al di là della personale intelligenza o inclinazione stilistica di questo o quel suo esponente – dai governi delle «larghe intese» non siamo riusciti ad avere. Governi simili funzionano solo in due casi, infatti: o quando c’è un obiettivo supremo su cui non si discute, in attesa di raggiungere il quale lo scontro politico è sospeso: come quando si tratta di combattere e vincere una guerra; ovvero quando tutte le parti, nessuna delle quali ha prevalso alle elezioni, giudicano più conveniente, anziché andare nuovamente alle urne, accordarsi sulla base di un accurato elenco di reciproche concessioni per sospendere le ostilità e governare insieme. Ma nessuno di questi due casi è quello dell’Italia: dove sia il conflitto interno al Pd e al Pdl che quello tra entrambi è ancora e sempre indomabile, e costituisce il tratto politico assolutamente dominante. La ragione delle «larghe intese» ha così finito per divenire, qui da noi, unicamente quella puramente estrinseca che si governa insieme perché nessuno ha vinto le elezioni, e per varie ragioni non se ne vogliono fare di nuove a breve scadenza.
Certo, due anni fa, quando tutto ebbe inizio con il governo Monti, le intenzioni del presidente della Repubblica miravano, e tuttora mirano, a ben altro. Ma dopo due anni di esperimento è giocoforza ammettere che quelle intenzioni, sebbene abbiano conseguito risultati importanti sul piano del contenimento dei danni, appaiono ben lontane dal divenire quella realtà di cui l’Italia ha bisogno.
Con le «larghe intese», sfortunatamente, non si diminuisce il debito, non si raddoppia la Salerno-Reggio Calabria, non si diminuiscono né le tasse né la spesa pubblica, non si elimina la camorra dal traffico dei rifiuti, non si fanno pagare le tasse universitarie ai figli dei ricchi, non si fa ripartire l’economia, non si separano le carriere dei magistrati, non si costruiscono le carceri, non si aboliscono le Province, non si introduce la meritocrazia nei mille luoghi dove è necessario, non si disbosca la foresta delle leggi, non si cancellano le incrostazioni oligarchiche in tutto l’apparato statale e parastatale; e, come è sotto gli occhi di tutti, anche con le «larghe intese» chissà quando si riuscirà a varare una nuova legge elettorale, seppure ci si riuscirà mai. Si tira a campare, con le «larghe intese», questo sì: ma a forza di tirare a campare alla fine si può anche morire .