Antonio Calabrò, blog in Huffington Post, 24 XI 2016.
Ora et labora. Le meditazioni nell’abbazia benedettina che fanno crescere meglio le imprese
“Ora et labora”. È la frase chiave della “regola benedettina”, il principio ispiratore di san Benedetto, uno dei cardini storici della nostra cultura, d’una identità radicata e diffusa. Ed è una frase di partenza di stimolanti meditazioni. La preghiera e il lavoro. La contemplazione e l’impegno fisico, materiale. L’anima e il corpo. La spiritualità e l’intelligenza del cuore e delle mani.
Meditazioni, appunto. Utili anche per far funzionare meglio le imprese, nella cornice di una “economia giusta” o “sostenibile”, “circolare” o “collaborativa”, tanto per usare solo alcuni degli aggettivi ricorrenti in queste stagioni di riflessioni critiche e autocritiche sui temi dell’impresa e della crescita economica. Meditazioni in un convento, perché no?
Ne arriva notizia dall’abbazia benedettina di San Pietro di Sorres, in provincia di Sassari (La Stampa, 17 novembre), dove si organizzano periodiche lezioni da “scuola di leadership”: un fine settimana di riflessioni sulle regole dell’Ordine di San Benedetto (origini nel Cinquecento, a Montecassino, per opera di san Benedetto da Norcia, una storia travagliata e fertile, dalla profondità del Medioevo sino a tempi recenti).
Niente computer né telefonini. Nessuna frenesia d’essere sempre e comunque connessi. Letture, semmai. Meditazioni. E silenzio. “Il silenzio significa ascolto. Prima di comandare bisogna saper ascoltare”, dicono i monaci dell’abbazia. E ancora: “L’insegnamento di san Benedetto può essere prezioso per chi vuole amministrare e fare crescere una società. Una delle nostre regole fondamentali è quella della valorizzazione delle competenze e delle attitudini del prossimo. Dei dipendenti e dei collaboratori, in un’impresa”.
Dei 78 articoli della Regola Benedettina, solo i primi riguardano la vita religiosa. Gli altri sono dedicati all’organizzazione del tempo e del lavoro. Cercando il senso più profondo di ciò che si fa, si costruisce, si decide.
Ecco un punto chiave: il tempo. Una dimensione da vita quotidiana. E un concetto filosofico. Quel tempo, la finanza speculativa dell’economia di carta l’ha stravolto: le transazioni digitali con immensi guadagni e perdite nel gioco di pochi istanti, le stock options dei top manager legate agli andamenti di corto respiro delle imprese, l’ossessione dei risultati rapidi, i giudizi sulle imprese nelle “trimestrali” commentate da analisti frettolosi, l’idolatria del “tutto e subito”, il mantra del “creare valore per gli azionisti” che, distorcendo un buon principio, si àncora soltanto all’andamento delle azioni in Borsa e alla massimizzazione dei profitti immediati…
Tutto un mondo rapace che è andato in crisi, dal 2007 in poi ma che continua a produrre veleni. E l’altro tempo, invece. Quello della ricerca, lunga lenta e paziente, provare e riprovare. E quello della manifattura, dove la qualità è il risultato d’un lungo processo di miglioramento e d’affinamento. Il tempo delle fabbriche, che nascono per restare aperte a lungo, vivendo nel cambiamento. Il tempo dell’innovazione, che sa di trasformazione e di metamorfosi, scienza che produce tecnologia che incide sulla competitività. Cultura dei “fare, e fare bene”. Cultura molto italiana.
Ecco un secondo punto chiave, che merita riflessione attenta: la competitività. Parola essenziale. Il cui senso profondo va trovato nell’etimologia latina, in quel cum e petere, nell’andare insieme verso un obiettivo. Non la darwiniana selezione del più forte, ma la collaborazione, il muoversi dentro una comunità d’interessi, affari e valori dove gli individui hanno senso nella relazione con gli altri. L’economia del cum, che investe anche “il mercato”.
E nel cui alveo si ritrovano tensioni culturali diverse, dal liberalismo di Smith e poi di Keynes alla cultura cattolica del “personalismo” e della “solidarietà” al riformismo socialista della cooperazione e della mutualità (concetti cari anche a una robusta tradizione cattolica, che oggi viene ripresa in mano, rileggendo Mounier e Simone Weil e le esperienze del “popolarismo” italiano).
Nella vita economica, le reti d’impresa e i distretti, le “catene del valore” che legano imprese a fornitori e clienti, in un rapporto profondo con il territorio che non è “un campanile” nella conflittualità localistica ma un insieme di valori condivisi che fondano un buon capitale sociale utile per lo sviluppo.
C’è da “rilegittimare il capitalismo”, come avverte la migliore letteratura economica internazionale, anglosassone ed europea. Insistendo non sugli “spiriti animali” ma sugli “spiriti morali”. Passando dal pure e semplice “valore degli azionisti” al privilegio dei “valori”, al rispetto di ambiente e persone, alla costruzione di un migliore futuro per le nuove generazioni, alla qualità e sicurezza di prodotti e produzioni e scambi.
“Ci vuole una crescita equa e inclusiva”, ha detto nel suo ultimo viaggio in Europa, a metà novembre, l’ex presidente Usa Obama, usando parole non “economiciste”, ma filosofiche, religiose. Temi forti. Temi con una robusta componente morale. Da affinare proprio attraverso l’ascolto, la meditazione, l’attenzione (sul valore della filosofia per l’impresa abbiamo parlato nel blog di due settimane fa).
Ritrovarsi in un’abbazia per ascoltare e meditare aiuta. E parecchio. Anche per lavorare a ristabilire il circuito virtuoso tra persona e ambiente, persona e lavoro, persona e sviluppo. Vengono in mente le scene del bel film di Roberto Andò “Le confessioni”, con i potenti dell’economia del G8 messi in scacco da un monaco cirstercense, che li pone di fronte ai temi della verità e della responsabilità, alla vigilia d’una manovra economa di stravolgente impatto sociale.
Un monaco che riporta al senso della parola, del silenzio, dell’ascolto e della centralità del pensiero. Roberto Salus, si chiama quel monaco. Salus. Ossia salute o anche salvezza. Scelte etiche. Solida filosofia. Come in quel motto “Ora et labora” caro ai benedettini. E utile anche ai buoni imprenditori, ai manager. Da meditare e rimeditare.