Filippo Santelli, Repubblica, 29 IV 2016
L’ufficio sulla nuvola, così si lavora nelle imprese virtuali
Dipendenti liberi di stare a casa e sparsi nel mondo. Sempre più aziende tecnologiche rinunciano a una sede fissa, sfruttando chat e software di collaborazione. “L’importante è darsi delle regole”, dice chi sperimenta il modello in Italia.
Sorridono, alle spalle il Golden Gate. A inizio aprile i colleghi di Tok.Tv, social network per gli eventi sportivi, sono stati insieme tre giorni a San Francisco. Una foto ricordo: prima che ricapiti passeranno tre mesi. Nel frattempo ognuno nel salotto di casa: “Ma parliamo molto, mi sento più in contatto con i colleghi ora di quando lavoravo in ufficio”, racconta Emanuela Zaccone, 33 anni, neo mamma, cofondatrice e direttore marketing della startup. Una sede in California, di rappresentanza. E quella vera sulla nuvola, nel pc di Emanuela, a Roma, e in quelli dei suoi undici colleghi sparsi tra San Francisco, Londra, Milano, Vercelli, Ragusa, Brescia e Cagliari. Si programma su una piattaforma comune, GitHub. Si comunica via chat, la più usata è Slack. Una volta a settimana si fa il punto in teleconferenza. E ogni tre mesi arriva il retreat, quattro giorni di ritiro, ogni volta in una località diversa. “Non tornerei indietro”, dice Emanuela. Nella stanza accanto lavora il marito. Anche la sua azienda è immateriale.
In fondo avere una sede di mattoni e cemento, per una giovane startup comeTok.Tv, non ha molto senso. Una volta assicurata la presenza in Silicon Valley, dove stanno i finanziatori, la parola chiave è agilità, il mercato da subito globale. La novità però è che anche imprese più grandicelle, una volta sperimentato il modello, lo conservano. Il sito FlexJobs, specializzato in consulenza sul lavoro flessibile, ha fatto un censimento di quelle americane: 26 nel 2014, 76 nel 2015, 125 nel 2016. Ovviamente tutte imprese dei servizi e tecnologiche, per produrre beni materiali i capannoni piantati a terra servono ancora. C’è Upworthy, il sito dei video virali. Automattic, società con 400 dipendenti in 43 Paesi, valutazione oltre il miliardo di dollari, che offre servizi per la piattaforma di blogging WordPress. Ma anche un vecchio big come American Express, che fa lavorare in remoto distribuiti tra i fusi orari gli oltre mille dipendenti del suo World Service, il servizio clienti.
Richiede fatica, avvertono i manager. Occorre verificare con regolarità che i dipendenti siano motivati e abbiano capito bene i loro compiti. Ma poi elencano i vantaggi. Si lavora dove si vuole, recuperando il tempo degli spostamenti da e verso l’ufficio. E permette alle aziende di aggirare i vincoli geografici: “Così possiamo accedere a un bacino di talenti molto più ampio”, dice Francesco Baschieri, 40 anni, fondatore e amministratore delegato di Spreaker, una piattaforma che trasforma il pc in uno studio radiofonico, con la possibilità di trasmettere in streaming o realizzare dei podcast. Nata a Bologna nel 2010, si era trasferita a Berlino due anni dopo, ma da gennaio è virtuale: Baschieri vive a Venezia con la compagna, gli altri dodici dipendenti tra Bologna, la Germania, la Spagna e la Lituania.
Gli spazi di coworking aiutano anche a superare i problemi normativi. Baschieri racconta le difficoltà di gestire una azienda virtuale con la legge italiana, che prevede comunque una sede di riferimento per chi è assunto a tempo indeterminato e con un responsabile della sicurezza sul luogo del lavoro. Il governo è intervenuto sul tema, con una serie di norme che favorsicono l’impiego agile. Ma secondo Zaccone, prima che il modello decolli in Italia, bisognerà superare anche un’altra barriera, culturale: “Richiede una grande maturità da parte dei lavoratori, e un’estrema fiducia da parte del datore di lavoro”.