Stefano Livadiotti, L’espresso, 31 I 2014.
In proprio per uscire dalla crisi.
Dieci anni per sfuggire alla crisi – Intanto meglio mettersi in proprio.
La grandi aziende chiudono sotto i colpi della recessione. Eppure il 2013 ha registrato il boom di aperture di nuove società, soprattutto piccole. Gli esperti: nel 2024 l’occupazione tornerà ai livelli pre-crisi.
*
I numeri a volte possono ingannare. È il caso, per esempio, di quelli su natalità e mortalità delle aziende contenuti nel report Movimprese, la rilevazione statistica di InfoCamere, che è una sorta di anagrafe del sistema economico italiano.
«Imprese: nel 2013 le aperture superano le chiusure; 12 mila attività in più (più 0,2 per cento)», recitava un comunicato datato 22 gennaio, che dava dunque un saldo positivo del mondo imprenditoriale per il nono anno consecutivo, con 371.802 cessazioni nei 12 mesi a fronte di 384.483 nuove iscrizioni. Come a dire che l’Azienda Italia avrebbe compiuto un mezzo miracolo, riuscendo in qualche modo a galleggiare sulla crisi partita nel 2008.
Ma il dato fa a pugni con tutti i più importanti indicatori della situazione economica del Paese. Con un prodotto interno lordo che, secondo una nota del centro studi della Confindustria del 25 gennaio, ha lasciato sul campo il 9,1 per cento dal picco pre-crisi del 2007 (ci vorranno cinque anni per recuperarne la metà; sull’altro 50 per cento nessuno azzarda scommesse).
Con una produzione industriale che, secondo i calcoli contenuti nel paper “Scenari industriali”, messo a punto nel giugno scorso sempre dagli analisti di viale dell’Astronomia, è crollata del 25 per cento. Con un calo del potenziale di almeno il 20 per cento in 14 settori del manifatturiero su 22. Con la perdita di 1.158.000 posti si lavoro, che non si fermerà neanche nel 2014, anno per il quale il governo ha previsto (nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza dello scorso 20 settembre) un ulteriore calo dell’occupazione dello 0,1 per cento, nonostante la fine della recessione con la previsione di un aumento del Pil dell’uno per cento: vuol dire, secondo uno studio della Confartigianato, che l’occupazione misurata in termini di unità di lavoro a tempo pieno scenderà intorno ai 23,5 milioni, ritornando al di sotto del livello raggiunto nel 2000 e che per riconquistare la vetta del 2007 bisognerà attendere dieci anni.
Il fatto è che le rilevazioni statistiche di Infocamere vanno lette al di là del saldo puro e semplice tra natalità e mortalità delle aziende, che comunque è in costante riduzione: dal più 1,61 del 2005 al più 0,21 del 2013 (con una pausa nel biennio 2010-2011: rispettivamente, più 1,19 e più 0,82). Non solo. Se si va a guardare alle cifre assolute, il dato del 2013 sull’anno precedente diventa negativo: le aziende infatti scendono da 6.093.158 a 6.061.960. Questo perché, semplicemente, alla voce cessazioni non vengono conteggiate le cancellazioni d’ufficio che colpiscono, per esempio, le aziende colte in violazione dell’obbligo di depositare il bilancio. E queste nel solo 2013 sono state 43 mila.
Ma anche così depurato il dato di Infocamere non fotografa la crisi in tutta la sua gravità. Perché a soffrire di più è stato il settore manifatturiero, quello che ha il peso più rilevante in termini di occupazione.
I numeri dello stesso Movimprese rielaborati dagli uomini del centro studi di viale dell’Astronomia dicono che tra il 2008 e il 2013 il saldo tra cessazioni e iscrizioni di imprese manifatturiere è negativo per ben 64.512 unità (con un picco di 13.628 nel primo anno). Cifra che, calcolata su uno stock di partenza di 389.899 unità, rappresenta un calo del 16,54 per cento.
Aziende di medie e grandi dimensioni che hanno chiuso i battenti e che, numericamente, sono state rimpiazzate da piccole società di servizi o esercizi commerciali: ecco come si spiega l’apparente contraddizione tra i dati delle camere di commercio e quelli sul Pil, sulla produzione industriale e sulla disoccupazione. Così la pensa Nicola Rossi, economista, già parlamentare del Pd: «Il fatto è che chi perde il posto di lavoro in fabbrica si autoimpiega, inventandosi un’attività. Se chiude un’azienda con mille dipendenti, 100 di questi si trasformano in imprenditori di se stessi e 900 vanno a ingrossare le fila dell’esercito dei disoccupati». Dice ancora Rossi: «È un fenomeno non solo italiano: in Grecia molta gente è tornata all’agricoltura. Da noi poi la difficoltà a ricollocarsi senza mettersi in proprio è stata accentuata dalle rigidità che la sciagurata riforma targata Fornero ha reintrodotto nel mercato del lavoro». D’accordo con Rossi è Alberto Bombassei, imprenditore a cinque stelle (Brembo) e presidente (oltreché parlamentare) di Scelta Civica: «L’occupazione classica è destinata a ridursi ulteriormente e questo fattore non può certo essere compensato dalla nascita di aziendine che si lanciano in settori totalmente nuovi, partendo magari con 3 o 4 addetti e vendendo i loro prodotti sulla rete: ben vengano, è chiaro, ma non risolvono certo i problemi dei senza lavoro». Conclude il leader mondiale dei freni per auto: «Bisogna trovare una soluzione nuova a livello politico, magari ricorrendo a anche a formule immaginate nel passato, come quella che prevede una riduzione dell’orario per ripartire il lavoro che c’è tra più persone»
Luca Paolazzi, capo del centro-studi degli imprenditori italiani, si aggiunge in qualche modo al coro: «Francamente non sono poi così stupito dall’apparente contraddizione tra l’aumento del numero delle imprese e lo scenario economico: i manager rispediti a casa dalle aziende mettono su imprese di consulenza; con la crisi ti inventi un lavoro da solo: è un modo di ricominciare a guadagnarsi la pagnotta altrove. Certo, bisogna vedere quante di queste nuove realtà restano in piedi più di qualche anno. E comunque in Italia il lavoro autonomo, quello che genera le micro-imprese, ha sempre avuto un peso percentuale molto più alto che nella media degli altri Paesi.
La situazione non cambia dall’angolo visuale di un sindacalista: «Il problema è che sono saltate le grandi aziende, schiacciate da un costo del lavoro reso esorbitante dal cuneo fiscale e contributivo», dice il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni. Che propone di adottare la ricetta francese, puntando su un taglio della spesa pubblica che consenta di ridurre le tasse sul lavoro. Per Giuseppe Roma, direttore del Censis, il fenomeno della natalità di nuove aziende in un periodo di vacche così magre è dovuto essenzialmente a tre fattori. Primo: gli immigrati impegnati nei lavori di manutenzione, che con la crisi crescono di importanza perché quel che si rompe non si sostituisce ma si aggiusta. Secondo: i giovani, che stanno puntando in massa su tutto ciò che è più innovativo. Terzo: le donne, titolari di uno stock di aziende pari a 1,4 milioni che tra il giugno 2012 e quello successivo è cresciuto del 3,3 per cento nella sanità e assistenza, del 3 nell’istruzione e del 2,8 per cento nella ristorazione. «Sono comunque segnali di vitalità», dice Roma. Un modo per vedere il bicchiere bicchiere mezzo pieno.