Deloitte, Corriere della sera, 5 VI 2016
INNOVAZIONE: UN DIALOGO TRA DIVERSI SAPERI
Essere plastici e smart non basta più. Oltre a padroneggiare le novità, bisogna saper riconoscere i tranelli e ammettere che “Da soli si può fare poco”. Analisi e suggerimenti di due esperti di psicologia del lavoro che avvertono: “L’errore più grande quando si cerca di innovare? Pensare più all’idea che alle persone che la realizzano”.
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La portata rivoluzionaria delle nuove tecnologie nella società postindustriale non ha precedenti: basti pensare che gli utenti attivi su Internet nel 2015 hanno superato i 3 miliardi e che si prevedono oltre 40 miliardi di dispositivi connessi entro il 2020. Sono cifre da capogiro, ma fermare il mondo e scendere dalla corsa non è possibile. Meglio, dunque, anticipare tale trend e dettare il passo. Ciascuno nel proprio modo e nel proprio mondo. Steve Jobs, in fondo, l’aveva intuito per primo: «È la capacità di innovare che distingue un leader da un epigono». Ma cosa significa esattamente innovare oggi?
Questione di dialogo
Ne parliamo con Silvio Ripamonti, Ricercatore in Psicologia sociale e del lavoro presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che afferma: «Oggi fare innovazione significa sostenere il dialogo tra diversi saperi. I gruppi di lavoro che operano all’interno delle organizzazioni provengono sempre più da aree disciplinari diverse. E il dialogo costruttivo tra di essi aiuta a portare innovazione all’interno dei contesti lavorativi. Da soli si può fare poco». E, mentre l’innovazione tecnologica diventa sempre più un bene comune applicato alla salute (come accade con il sequenziamento del genoma) o condiviso con l’intero genere umano (è il caso di Project Loon di Google, l’iniziativa mirata a diffondere internet nei paesi in via di sviluppo grazie all’uso di palloni aerostatici), è ormai chiaro che la domanda non è più “se innovare” ma “come”:
Una sfida centrale anche per realtà attente come Deloitte che, attraverso la unit dedicata, “Officine Innovazione”, ha organizzato a Milano il primo Innovation Summit, il cui obiettivo è stato analizzare come l’innovazione possa dare un impulso di crescita e sviluppo non solo economico ma anche sociale. Perché l’innovazione costituisce di fatto un importante volano per tutti i settori della società e può contribuire in modo sostanziale a migliorarne lo stato di salute, il livello di istruzione e cultura, nonché una condivisione più ampia del sapere e quindi del grado di democrazia:
«La tecnologia ha un ruolo fondamentale perché può essere motore d’innovazione»
– continua Ripamonti – «Come Università Cattolica, ad esempio, abbiamo studiato il ruolo dei social network nell’ambito lavorativo e quanto questi modifichino le relazioni tra le persone all’interno delle organizzazioni. È emerso come i social network aziendali consentano a gruppi di lavoro distribuiti sul territorio di lavorare insieme. Il rischio però è quello di aprire delle piattaforme che poi non vengano governate. Proprio per questo stanno emergendo delle nuove figure professionali, come il communication manager, con la funzione di aiutare le persone a stare in gruppi di lavoro complessi, che magari lavorano connessi solamente in rete». L’innovazione non è però solo digitale, seppur questa dimensione ne costituisca un aspetto fondamentale. L’innovazione ha diverse facce, un esempio su tutti è quello delle tecnologie esponenziali e di realtà come la Singularity University in grado di divulgare a un pubblico ampio un sapere scientifico-tecnologico, prima patrimonio di pochissimi specialisti. L’innovazione resta comunque e soprattutto generazione di idee, accelerazione di processi e individuazione di nuovi bisogno e quindi di nuovi obiettivi.
I vantaggi dello smart working
Nuove tecnologie non solo in grado di creare nuove figure professionali ma anche di cambiare la modalità di organizzazione del lavoro nella direzione dello smart working (il lavoro agile gestito in autonomia, da remoto). Secondo il sondaggio Millenial Survey Deloitte 2016, condotto su 7700 millennials (la generazione nata a cavallo tra gli anni 80 e i primi del 2000) di 29 paesi del mondo, il 75% si è dichiarato favorevole al lavoro da remoto e il 51% è convinto che lo smart working potrebbe avere un impatto favorevole sulla produttività. Ma quanto giova all’azienda e al lavoratore?
«Può essere una grande opportunità – afferma il ricercatore – perché ciascuno può organizzare meglio il proprio contributo. Il rischio, se non è sostenuto da figure professionali con funzioni di integrazione tra i vari lavoratori, è quello della frammentazione. Ciascuno diventa più esperto e più capace nel proprio segmento professionale, ma c’è poi il problema di integrare il proprio pezzo di lavoro con quello dei colleghi che operano in contesti, luoghi e orari molto diversi. Anche qui diventano necessarie figure professionali dedicate». Una tecnologia che diventa motore d’innovazione, dunque, con la mediazione dell’uomo.
Le trappole da cui difendersi
Ma non si può affrontare la luce dello sviluppo tecnologico senza tenere conto anche delle sue ombre. Un esempio? Nella vita di tutti i giorni si sono perfezionati e sviluppati virus e attacchi informatici sempre più sofisticati. L’ultima preoccupante tendenza è quella del virus con riscatto: il bug entra nel pc e blocca tutti i file che possono essere liberati solo su pagamento. Il cyberbullismo, in particolare, ha creato una grave emergenza sociale tra i più giovani che usano i social network con prepotenza e senza filtri, convinti di essere “invisibili”. Ma anche l’ossessivo ricorso a internet per il monitoraggio delle proprie condizioni di salute, ormai noto come cybercondria, sta dilagando:
«I problemi della salute sono tipici dell’incapacità di discernere fra informazioni e conoscenza»
– spiega il Prof. Ripamonti – «Per ogni sintomo possiamo trovare in rete tutte le informazioni possibili, ma ciò che manca è la sensibilità diagnostica». Difendersi da tutte queste trappole è possibile, basta stare attenti e soprattutto essere informati. Una priorità soprattutto per le aziende che, se da una parte si preoccupano di diffondere tra i dipendenti le linee guida sulla sicurezza informatica in ambito lavorativo, dall’altra devono vigilare sul pericolo di abuso delle tecnologie come unico strumento di lavoro.
Start-up: attenti alla bolla
Avvertimenti a parte, va detto che l’euforia di cogliere al volo le nuove opportunità rischia di produrre anche qualche incidente di percorso. Se da una parte c’è il colosso Facebook che occupa 10mila dipendenti e ha creato più di 4 milioni di posti di lavoro indiretti, dall’altra nascono start-up che non riescono a decollare, tanto che il venture capitalist americano Jim Breyer ha previsto che solo il 10 per cento tra loro sarà in grado di rispettare le attuali previsioni di crescita. Che cosa abbiamo sbagliato?
L’errore più comune è quello di restare troppo affezionati alla propria idea creativa innovativa.
A volte le start-up sono efficaci nel produrre un’idea, ma poi si adagiano e questa non riesce ad affermarsi sul mercato del lavoro troppo competitivo. Un modello virtuoso è invece quello dei cluster tecnologici nazionali promossi dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca. Il loro scopo è quello di fare rete tra diversi soggetti ed enti, pubblici e privati, che producano innovazione e che mettano in dialogo saperi differenti.
Le aziende più innovative sono quelle che costruiscono ponti molto più stretti con i propri clienti.
Ad esempio ci sono aziende che progettano un nuovo prodotto collegando in rete i progettisti, gli esperti di marketing, gli esperti di produzione e i propri clienti. In questo modo si accorcia di molto il processo di ricerca e sviluppo perché simultaneamente lavorano gli addetti all’organizzazione che fanno sviluppo e innovazione, ma anche i clienti che mettono a disposizione dell’azienda le proprie richieste.
L’innovazione è un mezzo
Innovare sembra meno facile del previsto, ma non bisogna abbattersi. Il Prof. Andrea Gaggioli, docente di Psicologia Generale presso l’Università Cattolica di Milano suggerisce tre linee per non sbagliare:
«Credo che la prima regola sia pensare prima alle persone che alle idee. Molti aspiranti imprenditori ritengono che avere un’idea di business innovativa sia la condizione necessaria e sufficiente per “lanciarsi”. Così facendo, spesso sottovalutano che costruire un’impresa in questa fase economica sia un’esperienza estremamente stressante e sfidante. La passione e l’ambizione sono senz’altro importanti, ma altrettanto fondamentali sono altri tratti quali la tenacia, la resistenza allo stress, la leadership, l’accettazione del fallimento.
La seconda regola è creare un team affiatato. Se si guarda alla storia delle grandi innovazioni, non solo in campo economico, ma anche nella scienza e nell’arte, scopriamo che si tratta quasi sempre di risultati di straordinarie collaborazioni. I grandi innovatori eccellono soprattutto nella capacità di costruire team di successo, creando le condizioni per la collaborazione ottimale. Condizioni che includono la condivisione di valori e obiettivi, la capacità di ispirare, coinvolgere e motivare ma soprattutto l’attenzione alla diversità di genere, età, cultura, esperienza.
La terza regola è considerare l’innovazione un mezzo, non un fine. Un’idea creativa non diventa un’innovazione fino a quando le persone non ne beneficiano. Questo vale soprattutto per le start-up hi-tech, che spesso propongono gioielli di tecnologia estremamente avanzata che poi non vengono recepiti o adottati dal mercato, perché magari si è posta più attenzione alla novità della soluzione che alla concretezza del bisogno». E quindi qual è la chiave di volta affinché un’idea innovativa funzioni davvero? «È la capacità di costruire reti creative – conclude il prof. Gaggioli – che includano persone, idee e risorse adeguate per crescere e maturare».