Francesca De Benedetti, La Repubblica, III 2015.
INTERNET NON E’ LA RISPOSTA
“PIU’ LA USIAMO E MENO VALORE CI PORTA”
Internet ci rende più liberi? un’illusione. Più uguali? Una falsa promessa. Più ricchi? Sì, non tutti però: pochi, anzi pochissimi. Così parla chi di internet è considerato la coscienza critica, «un outsider che viene dall’interno» come si definisce lui stesso. Se vent’anni fa, infatti, Andrew Keen avviava una sua impresa proprio nella Silicon Valley oggi è un noto autore e pubblica (in Italia con Egea) un libro intitolato “Internet non è la risposta”. Quasi la terza puntata di una trilogia: nel 2007 ci fu The Cult of the Amateur, una critica dei contenuti generati dagli utenti del web e della cultura libera.
Nel 2012 fu la volta di Digital Vertigo , un’analisi sferzante dei social media. La terza puntata chiude il cerchio: con The Internet Is Not The Answer, Keen ci sbatte in faccia tutte le contraddizioni dell’era digitale. Siamo impigliati in una Rete degli ideali traditi: «Nessuno meglio di voi italiani, figli del realismo politico alla Machiavelli, può davvero capirmi», dice Keen a Repubblica.
«Internet non è più quel bene pubblico che era quando nacque, ai tempi di Tim Berners-Lee. Quella che ci hanno presentato come una rivoluzione democratica, una svolta verso una maggiore uguaglianza, ora è ricchezza e potere in mano a pochi. Un sistema sempre più distante dalle persone».
Ma come, lei sostiene seriamente che la Rete non ha reso più democratico l’accesso alla conoscenza? «Se è per questo nel mare di contenuti online si trova di tutto, anche propaganda di aziende, governi e — per dire — dell’Is. Voglio dire che trovare di tutto sul web non ci aiuta di per sé a conoscere e comprendere la complessità del reale, anzi. E poi ovviamente non dico che bisogna fare a meno di internet: ho qui con me un cellulare ultimo modello e un pc…».
La critica di Keen si spinge dunque oltre, e investe la società frutto dell’era digitale nel suo complesso. L’economia decentralizzata della condivisione, tanto per cominciare, quella che avrebbe dovuto abbattere ogni gerarchia, è diventata di fatto una «economia a ciambella»: poche grandi aziende come Google, Facebook e Amazon monopolizzano il business dell’informazione.
E dunque Keen punta il dito contro il «sistema del “chi vince piglia tutto” in cui solo l’uno per cento gode di grandi profitti » mentre il restante novantanove frana, illusioni comprese. Un caso esemplare si trova proprio nella Silicon Valley: nel cuore pulsante della Rete in dodici anni sono andati perduti quarantamila posti di lavoro, in due i senzatetto sono aumentati del venti.
È la “distopia della Baia”, come la chiama Timothy Egan. Quanto al futuro, il divario economico- sociale tra ineguali legato a internet diventerà ancora più profondo. Spiega Keen che con il diffondersi dell’internet delle cose, dei big data, dell’intelligenza artificiale, dell’automazione, aumenteranno sia i problemi che i disoccupati. Se non bastassero le proteste “anti robot” che già presidiano l’America o l’allarme lanciato dal premio Nobel Paul Krugman, allora ecco i numeri: l’Università di Oxford prevede che l’informatizzazione costerà il posto di lavoro a centoquaranta milioni di lavoratori della conoscenza. Il quarantasette per cento dei lavori svolti oggi dagli americani potrebbe scomparire nei prossimi venti anni.
«Pensi a come verrà travolto il settore della moda e del design: un campo in cui l’Italia ora eccelle. Tutto cambierà: neanche i ristoranti saranno più gli stessi». Quanto alla privacy e al controllo basteranno le macchine che si guidano da sole, come la Google car, a tracciare ogni nostro spostamento, e dunque grandi fabbriche che fanno soldi con i nostri dati ci costringeranno in una repubblica di cristallo. L’incubo non è nuovo: somiglia al distopico Cerchio di Dave Eggers.
«L’ho letto — dice Keen — e mi è piaciuto. Quella sì che è una distopia. E io, ci tengo a dirlo, non sono né distopico né luddista: negli Stati Uniti quando critichi questo sistema vieni subito etichettato così. Io non faccio altro che puntare il dito su problemi reali. Ma in effetti anche nella finzione di Eggers c’è molto di reale. Se guardiamo oltre il falso dogma libertario, ci accorgeremo che più usiamo internet meno valore ci porta».
Una critica al tipo di società nato con la Rete che si avvicina molto a quella del papà della realtà virtuale, Jaron Lanier, di cui non a caso Keen ammette di essere «un grande fan». Anche Lanier è un “outsider da dentro”, anche lui reclama più equità scagliandosi contro il sistema perverso in cui cediamo gratis dati e dignità a vantaggio di pochi colossi. Sembra proprio, come direbbe Evgeny Morozov, che internet stia «perdendo la sua ingenuità»: mentre esce dalla sua adolescenza, le voci critiche si addensano.
Un coro di “traditi” la cui delusione è palpabile, quasi toccante: «Quanto abbiamo perduto la via, fratelli e sorelle!», scrivono Doc Searls e David Weinberger nelle loro nuove tesi sulla Rete. Sono tesi e sentimenti della maturità: forse è la stessa «nostalgia dell’ottimismo » di cui parla Keen. Per lui internet non è la risposta, ma si ostina a credere che sia «ancora un’ottima domanda».
Come salvarla, la forza dirompente di quel punto interrogativo? Secondo Keen, con nuove regole: «L’Europa è stata d’esempio quando ha cercato di frenare le concentrazioni monopolistiche come Microsoft, e lo è tuttora occupandosi del diritto all’oblìo. Dai governi dobbiamo pretendere regole compatibili con l’innovazione, ma che al contempo limitino i trust, ci tutelino dal controllo dei dati e dal loro uso sfrenato. Io non sono contro il mercato: io sono contro il mercato sregolato».
Non è contro internet, è contro un internet senza regole. L’illusione del web come prateria libera e selvaggia ormai lascia l’amaro in bocca. Come dicevano Deleuze e Guattari “non credere mai che uno spazio nomade sia sufficiente a salvarci”.