Roberto Faben, La Verità, 21 III 2019
PAPA’ GIULIO BELZEBU’ ? NO, E’ IN PURGATORIO…
* * *
Chi era davvero Giulio Andreotti? Di colui che fu tra i politici più longevi e influenti della Prima repubblica, Indro Montanelli, nel 1984, scrisse: «Il suo armadio è il più accogliente sacrario di tutti gli scheletri in cerca d’autore circolati in Italia nell’ultimo ventennio. E dobbiamo convenire che si è sempre gentilmente e con molta grazia prestato ad accoglierli. Mai un lamento, mai una querela, mai nemmeno una piccola smorfia di rammarico o di dispetto».
Bettino Craxi lo soprannominò Belzebù. Lui fece spallucce e continuò a ritagliare e conservare anche le vignette più velenose che Forattini e Giannelli gli riservavano. Dotato d’intelligenza troppo brillante – al punto da «permettersi il lusso di non esibirla», scrisse Oriana Fallaci – per farsi tentare dalla volgarità delle arrabbiature, era anche così realista da diffidare degli eloqui complicati.
Non era certo un mistico come Giorgio La Pira, ma sapeva comprendere le ragioni di Enrico Berlinguer, di Giancarlo Pajetta, di Marco Pannella, e instaurare con loro un rapporto di reciproca stima. Lo hanno processato per associazione a delinquere con la mafia e per il delitto del giornalista Carmine (Mino) Pecorelli, è stato sospettato di coinvolgimento nel golpe Borghese, di essere al comando dell’Anello – un superservizio segreto deviato -, di rapporti mai chiariti con il capo della P2 Licio Gelli e con il bancarottiere Michele Sindona, di aver ignorato una possibilità reale di salvare Aldo Moro senza accondiscendere alle trattative con le Brigate rosse, di aver fatto occultare pagine scottanti di dossier e memoriali. «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente di tutto» replicava, con la consueta dose di garbo e sarcasmo.
Quanto alle cartelle dell’Ufficio affari riservati del ministero degli Interni sulle stragi, agli omissis e ai documenti rimasti secretati o spariti, si continua a lambiccare sul fatto che Andreotti (classe 1919, sette volte Presidente del Consiglio, 26 ministro, senatore a vita dal 1991, morto nel 2013) possedesse le chiavi per aprire le porte degli enigmi. Tuttavia, con lui al potere, centrista nel Dna, nel periodo oscuro delle derive estremiste e dei rischi totalitari, la democrazia sopravvisse, pur reggendosi su equilibri insanguinati.
Una parte degli italiani lo denigra, un’altra lo rimpiange, con quei completi scuri Caraceni nelle sue apparizioni tivù. Ma chi era davvero Giulio Andreotti? La Verità lo ha chiesto a uno dei suoi 4 figli, Stefano Andreotti, classe 1952, laurea di giurisprudenza, oggi in pensione dopo essere stato direttore della filiale Siemens di Roma, terzogenito. Circolava la voce secondo cui Andreotti potesse mettere fuori gioco i propri avversari mediante il suo archivio.
Nella celebre intervista alla Fallaci del 1974 rivelò: «Non ho mai ritenuto che il potere consistesse nel farsi i fascicoli per ricattare. Non ho cifrari segreti. Ho solo un diario che scrivo ogni sera che Dio manda in terra. Certo, lo tengo in modo tale che nessuno può capirlo all’ infuori di me. È proprio un segreto, e spero che i miei figli lo brucino il giorno che morrò».
L’avete bruciato questo diario?
«Mio padre ci ha lasciato alcune lettere, scritte nei momenti più drammatici della sua esistenza, come durante il sequestro Moro e, in seguito, quando dovette subire un delicato intervento chirurgico tra naso e cervello, e nel momento in cui si recò a Palermo, per le note vicende processuali. Erano da leggere post mortem. In una di queste lettere aveva scritto di conservare quei diari, raccomandandoci di farne l’uso che ritenessimo migliore, incluso quello di pubblicarli, a condizione “che non nuocciano a nessuno”».
Pertanto, i diari li avete voi?
«Li abbiamo noi. Devo tuttavia dire che una parte pur minima di essi fu sequestrata dalla Procura di Palermo nel periodo del processo e, nonostante le richieste, non ci sono mai stati restituiti».
Li avete letti?
«Sì, ma non sono semplici da decifrare. Soprattutto per la grafia di mio padre, ai limiti dell’ illeggibilità. E per il suo disordine, all’ interno del quale solo lui poteva trovare un ordine. L’ ordine cronologico degli appunti non è semplice da ricostruire, anche perché sono trapunti di foglietti e aggiunte. Vi sono scritte memorie storiche, ma anche notazioni minime, ad esempio riferimenti a compleanni. Allora, mi viene da dire che le ipotesi sono due. O mio padre è stato così abile da nascondere i suoi presunti scheletri, oppure l’ unico segreto che esiste è che non ci sono segreti. Ci si può credere o non credere».
Che padre era Giulio Andreotti?
«Non elargiva certo carezze o baci. Ma non era nemmeno un padre impositivo. Ci lasciava scegliere. Odiava il fumo, ma quando ho iniziato a fumare – ho smesso a 38 anni – mi comprava le sigarette. Quando, a 18 anni, decisi di portare i capelli lunghi, non disse nulla».
Le regalava giocattoli?
«Tantissimi, ricordo macchinine e soldatini. E immancabilmente, di ritorno da una missione all’estero, ci portava un dono».
Ha avuto qualche conflitto o divergenza di opinioni con lui?
«È accaduto varie volte, ma sempre nel reciproco rispetto. Ascoltava con interesse i nostri punti di vista diversi su questioni sociali, perché riteneva di vivere in una sorta di limbo, talvolta impermeabile».
Per chi votavate?
«Abbiamo sempre votato Democrazia cristiana. Ma non perché ce lo ordinasse nostro padre. Eravamo convinti di farlo».
Ricorda alcuni politici che frequentavano la vostra casa?
«Erano pochissimi. Ricordo Francesco Cossiga e Franco Evangelisti. E Giovanni Leone, in vacanza in montagna sulle Dolomiti e a Roccaraso. I grandi amici di mio padre, tuttavia, erano i suoi vecchi compagni di scuola».
E Moro, l’ha conosciuto?
«L’ho conosciuto da bambino perché le figlie di Moro frequentavano, come noi, per il catechismo, il convento delle suore di Priscilla, qui a Roma, fondato da un monsignore zio di mia madre. I nostri rispettivi genitori ci venivano a prendere»
Quando le Br sequestrarono il presidente della Dc, nel marzo 1978, uccidendo la scorta in via Fani, lei aveva 25 anni. Come reagì suo padre nei momenti del rapimento e della prigionia?
«Lo vedevo soffrire enormemente e parlava in famiglia delle vicende che si susseguivano. Il mattino che dovette presentare il Governo (il 16 marzo 1978, giorno stesso del sequestro Moro, ndr) stette malissimo anche a causa di una violenta emicrania con conati di vomito, una di quelle emicranie che contrastava assumendo fino a 12 Optalidon e 200 gocce di Novalgina al giorno, tanto che la seduta fu sospesa per alcune ore. Mio padre avrebbe voluto che Moro fosse il presidente del Consiglio e Moro avrebbe voluto che lo fosse mio padre».
Moro, durante la prigionia, scrisse lettere nelle quali definiva suo padre «personaggio grigio e senza palpiti», minacciava di rivelare particolari scomodi sul concorso dello Stato nelle stragi, sulle strutture militari top secret. Andreotti, in un’intervista a Enzo Biagi a Linea diretta, disse che un Moro «nella pienezza delle sue facoltà non avrebbe mai usato queste immagini» e ricordò che lo statista ucciso, quando era presidente del Consiglio durante il rapimento del giudice Mario Sossi, «era per una linea dura, di non contatto con le Br».
«Guardi, mio padre potrebbe anche essere stato il più grande bugiardo del mondo. Io però sono portato a escluderlo. Lui non piangeva mai. L’ho visto piangere soltanto due volte. Quando è morta sua madre. E quando è Moro è stato ucciso. Io non mi meraviglio di niente, ma non posso credere che fosse così finto».
E riguardo ai rapporti con Sindona e Gelli?
«Certo, lui conosceva moltissime persone, sostanzialmente tutti. Ma da qui a dire che avesse cointeressenze o affari sporchi con loro, ce ne passa. Comunque nei processi di Palermo e Perugia si è parlato anche di questo».
Qual è il suo pensiero circa le accuse rivolte a suo padre di rapporti illeciti con Cosa nostra?
«Penso che si racconti solo ciò che fa più comodo raccontare. E alla quantità di cose che gli sono piovute addosso, da pentiti come Balduccio Di Maggio, che ha ricevuto un chiamiamolo “indennizzo” di un miliardo e mezzo di lire più sei milioni di lire mensili, per aver rivelato dove si trovava il covo di Totò Riina e intanto ricostituiva la sua cosca».
E il presunto bacio con Riina?
«Non ci ho mai creduto. Anche perché mio padre, viaggi ufficiali a parte, non andava mai da nessuna parte, non aveva nemmeno la patente. E quando si spostava, era costantemente seguito dalla scorta».
Assistendo alla proiezione del film Il divo di Paolo Sorrentino, perse le staffe. Nel monologo solitario, Andreotti-Toni Servillo, confessandosi idealmente alla moglie Livia, diceva: «Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità, diretta o indiretta, per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984».
«Andò ad assistere al film accompagnato dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi e in sala era presente anche il regista. Lo definì “una mascalzonata”. Quell’immagine di uomo cinico, freddo e spietato che si aggirava per stanze semibuie non corrisponde alla realtà. Anzi, la travisa, come nella scena del bacio a Riina. Inventata. Non pensava che il potere possa compiere qualsiasi nefandezza. Mio padre non era così».
Com’era invece?
«Forse non dovrei ricordarlo, ma aiutava tutti quelli che poteva, non solo distribuendo viveri nel suo ufficio, a piazza San Lorenzo in Lucina o a piazza Montecitorio, ma anche economicamente. Un giorno fece fermare il caposcorta davanti a un ospedale per visitare un clochard che conosceva di vista. E quando Madre Teresa di Calcutta lo portava in giro nei luoghi dell’ emarginazione di Roma, si prodigava per migliorare le cose».
Pensa che alcuni poteri abbiano voluto distruggere Andreotti?
«Certamente qualcuno non ha digerito il suo lungo potere e il fatto che non abbia avuto nulla a che vedere con Tangentopoli. Probabilmente c’ è stato anche uno zampino internazionale che non gli ha perdonato certe scelte di autonomia».
Suo padre credeva nel Paradiso e nell’Inferno. Dove immagina si trovi ora?
«In Purgatorio, a riflettere su alcuni peccati, ma con un abbuono, perché un po’ di Purgatorio l’ ha già scontato nella sua vita terrena».