Davide Desario, Leggo, 29 VII 2020
Intervista ad Antonio Fazio, ex governatore della Banca d’Italia
Antonio Fazio, ex governatore della Banca d’Italia, è nella sua storica casa di Alvito, piccolo comune in provincia di Frosinone. Continua a leggere, a studiare e a scrivere. Soprattutto a scrivere. A settembre pubblicherà (per l’editore Treves) il suo ultimo libro, sulla Storia monetaria d’Italia e Europa: uno studio attento e profondo che spiega molte cose. Che aiutano a capire anche il presente.
Il recente accordo europeo sul Recovery fund è un avvenimento storico. Come lo giudica?
«Non accentuerei questo carattere storico. È un avvenimento che sicuramente dà un segno di vita dell’Europa. La Comunità europea si prende carico dei problemi degli Stati che ne fanno parte. E tra questi oggi l’Italia riceve, senza dubbio, un trattamento favorevole. Finalmente si torna in qualche misura ai principi fondanti del trattato di Roma. Speriamo che questo atteggiamento della Commissione venga confermato e reso più evidente».
Si spieghi meglio.
«Quando nacque la Comunità europea, e la Commissione che ne è il governo, c’era un punto fondamentale che era la sussidiarietà. Ogni Paese faceva la sua politica economica ma c’era un coordinamento della Commissione che spingeva i singoli Stati verso atti di politica economica che non danneggiassero gli altri Stati e invece cooperassero alla crescita e allo sviluppo comune. Questo carattere di sussidierietà, purtroppo si è perso».
Vuol dire che ora si è ritrovato quel carattere?
«Io ho un’ottima impressione di questo nuovo presidente Ursula von der Leyen. Cosa che non avevo dei recenti predecessori. Prima di lei la Commissione si era trasformata in una specie di authority che non faceva altro che controllare e frenare i singoli Stati. È stato un tradimento ai principi sui quali è nata la comunità europea».
In che senso?
«L’ho scritto in un mio intervento recente. Eseguendo i provvedimenti suggeriti dalla commissione europea per ridurre il debito, il risultato è stato soltanto quello di aumentare il debito dello Stato. Era 105 per cento del Pil prima dell’Euro e ora è arrivato a oltre 130 per cento. E aumenterà ancora di più a causa del coronavirus».
Insomma la comunità europea non ci ha aiutato.
«Sono stato sempre favorevole all’Europa, quella definita dal trattato di Roma. Ma mi definirono correttamente un euroscettico riguardo al problema della moneta unica. Dichiarai al Parlamento che la moneta unica avrebbe ridotto i rischi di terremoti finanziari ma avrebbe agevolato un bradisismo economico pericoloso. E, infatti, seguendo pedissequamente gli indirizzi della Commissione il tasso di crescita è diminuito ed è aumentata la disoccupazione. Il nostro debito pubblico invece di diminuire è aumentato sempre. Il che vuol dire che l’indirizzo di politica economica non è stato corretto».
Ora il risultato diplomatico ottenuto dal governo italiano potrà rivitalizzare il rapporto tra opinione pubblica e idea di Europa, decisamente appannato negli ultimi anni?
«Sì. Il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è stato abile. Quando si votò per l’attuale presidente della Commissione si è creato un ottimo rapporto con la von der Leyen, lei fu eletta anche grazie ai voti del nostro governo. La von der Leyen sembra avere una visione diversa dai suoi predecessori»
Quale?
«L’unione monetaria ha instaurato una regolazione dei sistemi di cambio che ha favorito in misura enorme la Germania e l’Olanda che hanno accumulato un importante surplus nei confronti dell’estero. Così i Paesi meno forti, Grecia, Irlanda ma anche Italia, Spagna e Portogallo sono rimasti indietro. Non lo dico io, lo dice una relazione del precedente presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, dove si vede nettamente come i Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) sono ancora al di sotto di circa 4-5 per cento del Pil rispetto alla crisi del 2007, la Germania invece è risalita. Meno della Gran Bretagna che è fuori dalla unione monetaria. E meno dell’America. Insomma le politiche della Commissione invece di favorire l’unità ha spaccato l’Euro in due: paesi forti e paesi deboli, con la Francia rimasta nel mezzo».
E quindi?
«Quindi direi che non è storico l’accordo sul Recovery fund, ma è importante la svolta di questa attuale Commissione che finalmente speriamo possa tornare a svolgere positivamente il suo compito originario. Non frenando gli Stati membri e non avallando lo strapotere della Germania e dei suoi stati satellite ma stimolando lo sviluppo di tutti».
Come potranno essere usati questi oltre 200 miliardi?
«Attenzione questi soldi sono senza dubbio importanti (non dimentichiamoci che quasi la metà di questi soldi sono quelli che l’Italia versa all’Europa). Ma non ci aspettiamo una spinta immediata alla crescita. Non bastano i soldi. Lo sviluppo del Paese deve avvenire con adeguate politiche del governo italiano, politiche delle quali al momento non vedo il disegno. Hanno molto lavorato per ottenere questi fondi, ma il difficile viene adesso».
Cosa pensa, dunque, dell’operato del premier Conte?
«Ho stima di Conte. Si è trovato a gestire una situazione difficilissima e imprevista. Ma al momento non abbiamo un quadro di politica economica. E non la vedo ancora per il futuro».
Il nostro Paese non ha certo brillato in passato nell’utilizzo dei fondi europei. Come evitare di ripetere gli sbagli del passato?
«Ha ragione. Ho lanciato questo allarme in numerose considerazione finali della Banca d’Italia. Purtroppo questi fondi richiedono una capacità progettuale. E in passato è mancata. Bisogna invertire questo aspetto».
Gli investimenti del Recovery Fund potranno dare una spinta effettiva al Sud, il cui divario dal resto del Paese rischia di allargarsi ancora di più per colpa del Covid?
«Bisogna mettere mano alla eliminazione del gap infrastrutturale tra Nord e Sud: ferrovie, autostrade e banda larga su tutto. Soltanto dopo si può parlare del resto. Come la rimodulazione del costo del lavoro. Il costo della vita in Italia in questo momento è molto diverso tra Nord e Sud. Così il sud non sarà mai competitivo».
Ma non si può fare altro per il Sud?
«Certo. Ai miei tempi convinsi la Fiat a fare lo stabilimento a Melfi mentre loro lo volevano fare in Portogallo. Certo, poi non furono fatte le strade di collegamento. Bisogna colmare questo gap. E poi rimodulare il costo del lavoro, anche stimolando l’aumento della produttività. Così si può frenare la caduta dell’occupazione al Sud. Occorrono piani. Occorre una visione di sviluppo. Un po’ come nel dopoguerra con il piano Vannoni. Ma al momento non vedo nulla».