Maurizio Chierici, Il fatto quotidiano, 15 XII 2015
Ipermercati addio: luoghi abbandonati senza un futuro
Si illuminano come alberi di Natale, ma la seduzione dei supermercati comincia a sfiorire: primi passi verso il viale del tramonto. Anni fa hanno spento i negozi delle vecchie città; adesso non sopportano la concorrenza elettronica. Nuove generazioni sempre più lontane dalle file beduine del compra-compra. Fanno spesa col clic dello smart. Eppure anche l’Italia senza banda larga ruba clienti alle grandi botteghe, sia pure col passo lento di una rete arretrata che pasticcia nell’esportazione online mentre la Cina allarga i mercati e moltiplica tutti gli affari e-commerce: 710 milioni di oggetti proposti nelle vetrine virtuali, 310 miliardi di dollari, 400 nel 2016. Da noi clienti più uomini che donne, ma la differenza diventa sottile appena Internet arriva nella tasca dei telefoni. Giovani avventori che aumentano il 3 per cento l’anno. Comprano cosmetici, pentole, gioielli, biglietti aereo-treno, vestiti, magliette. Diffidenti sulle scarpe; oscar dei desideri telefoni e computer. Mai più di 35 anni. I pensionati si contano sulle mani.
Iper e super mercati resisteranno fino a quando non diventeremo un paese elettronicamente normale mentre gli Stati Uniti già programmano come trasformare in “spazi culturali” capannoni senza finestre e senza orologi, bunker del consumismo di chi ha i minuti contati. Per dire le prime ipotesi: angoli con orchestrine, sale conferenze, cinema, saune, campi da tennis mentre ormai lontani dai desideri gli scaffali dei nostri giorni sopravviveranno negli angoli degradati alle borse della spesa.
Quarant’anni fa, Iper e Super avevano rivoluzionato le abitudini dell’Italia che non sopportava la fortuna del restare di provincia. Botteghe degli incontri e delle chiacchiere, vetrine che rallentavano i passi sui marciapiedi trasformati in salotti dove i ragazzi ciondolavano nell’anticamera dei desideri. Sono arrivati gli stanzoni senza aria e senza tempo. Spogliano nell’anonimato il sapore di ogni città. Nessuno fa salotto con bottiglie e verdure che grondano dai carrelli. Super e Iper diventano l’alibi della speculazione edilizia che seppellisce nel cemento le campagne asfissiate dalle new town.
Nel dopoguerra le città si allargavano attorno a chiese, scuole, bocciofile, spazi per i discorsi di chi cercava di capire. Poi Iper e Super riuniscono nei palazzoni senz’anima inquilini smarriti dai giorni vuoti: figli al lavoro, nipoti fra i banchi. Per scambiare due parole devono scendere e comprare. Urbanistica che associa strutture teoricamente inconciliabili: speculatori e cooperative. Coprono di cemento 70 ettari al giorno, cento campi da calcio: strade, rotonde, parcheggi per le carovane dei clienti attorno ai pancali dei “mercati della modernità”. Eccoli invecchiati dalle nuove abitudini.
Chirac presidente non progressista aveva capito 30 anni fa che il fascino della sua Parigi ingrigiva senza vetrine, malinconia dei cinema spenti. Invita chi è scappato nelle banlieue a riaccendere le luci: purché tornino paga lo Stato. Figuriamoci se era possibile fermare gli affari nell’Europa mediterranea. Eccoci al capolinea. Da Los Angeles a New York analizzano ipotesi per non demolire strutture che sembravano eterne. Oltre alle vetrine piccoli bed and breakfast, sale da ballo, tennis coperti, mini zoo. Si immagina il déco del grande magazzino di Standford cornice di una fondazione California. Di rigore, come in ogni altro posto, smart, tablet, telefoni per navigare in chissà quale futuro. Per le nostre periferie qualcuno immagina qualcosa?